venerdì 18 novembre 2011

La notte in ostello.

"Questo ufficio non è un albergo!"
Se qualcuno lo urlasse adesso, si sbaglierebbe di grosso.
Sono ore, forse giorni, forse anni, che mi aggiro per una città perennemente buia trascinando una valigia di cui ignoro il contenuto. Forse non ho mai fatto altro in tutta la mia vita.
E quando arrivo nel mio ufficio sono quasi contenta che si sia trasformato per magia in un ostello gigantesco, con stanze e letti a castello o divani morbidi nei corridoi.
La sensazione è quella di essere entrati in un tipico studentato americano, quelli da confraternita. I miei colleghi del corridoio di là si aggirano sciolti in calzini e maglietta, come se avessero 16 anni, 1 paio di mutande pulite, 0 preoccupazioni e poco altro. Si muovono molli e lenti, come se fossero di nuovo liberi dal loro esoscheletro di convinzioni.
Ma io ho bisogno di dormire, ho bisogno di riposare. E' troppo tempo che vago senza meta.
Non ci sono ragazze, in questo edificio, solo quelle che si accoppiano con i suoi ospiti.
Così mi rivolgo all'unico spaiato, e non voglio nulla, voglio solo il suo letto, voglio solo dormire.
No, mi dice, tu non sei della confraternita, il mio letto non te lo do. Che poi arriva la mia fidanzata e se ti trova qui sono guai.
Ma io non voglio niente, ti giuro, niente, solo appoggiare e chiudere gli occhi e affogare in questa stanchezza.
E va bene, mi dice, va bene: ti lascio il mio letto. Ma solo due ore, durante il mio turno di guardia; poi te ne vai.
Chiudo gli occhi in questa stanza dove corpi giganteschi si muovono come cavallette aliene, senza sosta, senza quiete, e mi chiedo quale attacco sta per arrivare alle porte dell'edificio, alle porte del mio sonno.

Dreamed by: Co.




lunedì 14 novembre 2011

La donna senza valigia.

Sono la donna con la valigia, io. Per chi non lo sapesse io e il mio trolley semirigido rosso brillante con graffi neri ormai indelebili, siamo i più assidui frequentatori della tratta alta velocità tra Milano e Bologna e di altri non-luoghi ameni, quali autogrill dimenticati nella nebbia,  sale fumatori degli aeroporti, e tangenziali vista mare. Viaggi di andata e ritorno. Ma sarebbe meglio dire di ritorno e ritorno. Perchè ritornare a casa è quello che faccio da una vita. E per qualche motivo, ovunque io sia, la mia casa è sempre altrove.
Detto questo stanotte io e la mia valigia stiamo tornando a casa. A Bologna. Ma le strade che percorro a piedi assomigliano in modo inspiegabile ai vialetti silenziosi di quell'altra mia casa, quella dei miei, al mare. Incontro un po' di  persone, persone di Milano e mi fermo a salutare. E si vede che in tutta questa confusione di case e di città, qualcosa mi sfugge. La mia valigia. Mi guardo indietro e all'improvviso lei non c'è più. E non capisco come sia possibile. Torno indietro di qualche metro e non la trovo. Mi affaccio dietro l'angolo, sbircio sotto le auto parcheggiate, come se avessi perso un cucciolo indisciplinato. Niente. Qualcuno deve avermela rubata. E allora mi concentro, ricaccio indietro le lacrime e mi dico che in fondo era solo una valigia. E che in fondo dentro c'erano solo dei vestiti. Mi passa per la testa come un fulmine l'idea che da questo momento sarò più libera e i miei viaggi più leggeri. È un pensiero illuminante. Ma è solo un attimo. Perchè quelle erano le mie cose e qualcuno mi ha derubato. E all'improvviso è come se in quella valigia, tra calzini e magliette, ci fossero i miei polmoni, le mie braccia, le mie orecchie e le dita dei miei piedi. È inammissibile che me la sia lasciata portare via così. Eppure chissà, magari è solo tornata a casa. 

Dreamed by: Monsters

giovedì 20 ottobre 2011

Il morso.

Molta polvere e poca luce. Almeno qui dentro. Ma se mi volto indietro, vedo il rettangolo di una porta spalancata inondato di una luce accecante, di lame bianche che entrano con violenza e tagliano l'aria viziata. È tutto fermo, anche il respiro. Viene fuori incerto, si sente un ospite indesiderato. Dev'essere passato molto tempo dall'ultima volta che qualcuno ha camminato in questa casa. Devo muovermi piano, senza disturbare, ma il silenzio è così forte che mi cigolano anche i pensieri. Piano, pensa piano. E così osservo molto piano la scalinata davanti a me e poi molto piano giro la testa da un lato. Non sono sola. A qualche metro da me c'è un cane tutto costole e denti, mi fissa muto con i suoi occhietti umidi e il naso tremolante. To starve è il termine inglese per “morire di fame”. Come sono pragmatici gli inglesi, racchiudono immagini potenti in una sola parola, anche quando si parla di cose come la morte. Cose per cui noi sprecheremmo lacrime e preghiere e veli di pizzo nero e litanie recitate in un filo di voce. To starve è quello che sta succedendo a te, cane. Da quanti secoli nessuno ti allunga qualcosa da mangiare? Mi sembra anche di conoscerti, in qualche modo mi ricordi qualcosa, forse addirittura qualcuno, ma tutto questo pensare fa troppo rumore. Scusami cane, devo fare silenzio. Passa un secondo, anzi meno, nessun rumore, nessun movimento, eppure mi accorgo che il cane è qui, proprio dove sono io e mi sta mordendo la mano sinistra. Il dolore arriva in ritardo e non è nemmeno dolore, è più un certo fastidio, ho una mano bloccata nella bocca di un cane che forse conosco e forse no e forse mi ricorda qualcuno e questa cosa mi dà fastidio, ecco. Devo liberarmene. Comincio a salire le scale davanti a me con il cane che non molla, la mano sanguina, la sollevo e lui mi resta attaccato a penzoloni, con le zampe che annaspano nell'aria polverosa. Ti avrei comprato una salsiccia e invece non avrai proprio niente e stai anche facendo un baccano infernale. Tutto questo sangue mi rovinerà i vestiti e l'umore. Arrivo in cima alle scale e il cane è sparito. Così non vale. Trovo un bagno e cerco di lavarmi le mani ma resto ferma a guardare la mia immagine nello specchio. Perché non c'è un posto nel mondo dove possa restare un secondo in pace? Poi premo la mano aperta contro il vetro e lascio un'impronta netta di sangue. Mi piace l'idea di spaventare qualcuno, se mai qulcuno dovesse arrivare. 


Dreamed by: Monsters

giovedì 6 ottobre 2011

Il Temporale, di Master of Monsters.


Galassie color porpora si srotolano davanti ai miei occhi mentre seguo un corridoio di stelle che mi conduce a una porta di alabastro. Mi guardo alle spalle e vedo intere civiltà sgretolarsi in un istante, spazzate via da un vento distruttivo che non risparmia niente: grattacieli, case, uomini, piante e animali. Non posso fare nulla. Apro la porta ed entro nella stanza. Una piccola scala di pietra grigia mi accompagna fino a una grande terrazza che si affaccia su una lunga spiaggia di sabbia bianca. La spiaggia è deserta e l’unica entità vivente capace di modificare la sua perfetta geometria è un mare blu, che inspira ed espira senza sosta producendo un forte moto ondoso. Anche la terrazza è vuota se non fosse per alcune tende bianche che vengono strattonate di tanto in tanto da folate di vento improvvise. 
Mi guardo un po’ intorno ma intorno non c’è proprio niente. Mi siedo in un angolo e aspetto. Qualcosa dovrà pur succedere. Anche se fosse un sogno, come presumo che sia, qualcosa prima o poi verrà a sconvolgere questa apparente staticità. E invece niente, i minuti (o le ore) passano ma tutto sembra ripetersi con cadenza perfetta. L’onda che si infrange sulla spiaggia, la risacca, un colpo di vento che fa vorticare le tende e poi un attimo di quiete, prima che si ripeta di nuovo la stessa precisa sequenza di eventi. 
Provo a distendermi sul pavimento e chiudere gli occhi. Magari se riesco ad addormentarmi posso produrre l’effetto contrario, una specie di sogno scaccia-sogno che potrebbe farmi risvegliare nel mio letto. Potrei aprire gli occhi di colpo e ritrovarmi sudato con la testa dalla parte opposta del cuscino e le lenzuola appallottolate in un angolo, come quando non digerisci bene e cadi in un sonno pesante e turbolento. Invece, quando riapro gli occhi, sono ancora sulla terrazza con il mare che si schianta sulla sabbia. Solo una cosa è cambiata. Al centro della stanza è apparso un enorme letto circolare con le lenzuola bianche. Di un bianco abbagliante, quasi divino. 
Mi alzo e con passo lento mi dirigo verso il letto. Mi rendo conto però che l’andatura lenta non è voluta ma è dovuta a un ostacolo invisibile, come se alla caviglia mi avessero legato una di quelle pesanti palle da carcerato che mi impedisce il movimento. Ogni passo che faccio diventa sempre più difficile e arrivo a circa un metro dal letto quando, anche sforzandomi di utilizzare tutte le forze che il mio corpo sarebbe in grado di generare, non riesco più a muovermi. Sono completamente bloccato. I miei arti si sono letteralmente paralizzati. In realtà tutto il corpo è paralizzato.
La mente però è vigile, vede e sente tutto e cerca un modo per uscire da questa terribile impasse. E’ come se il mio sangue fosse stato improvvisamente avvelenato da una pesante dose di siero paralizzante. Come quello che alcuni serpenti dell’Africa sudorientale conservano per i loro nemi…
Non faccio a tempo a terminare questo pensiero che inizio a cadere. La pietra del terrazzo esplode sotto i miei piedi e si apre una voragine che mi inghiotte facendomi precipitare. Vedo le lenzuola bianche del letto e il blu del cielo diventare un punto sempre più lontano sopra di me. La velocità con cui precipito è pazzesca e in un attimo mi ritrovo completamente avvolto dall’oscurità. Urlo ma non sento la mia voce, avverto solo la velocità e la forza che l’attrito del mio corpo produce nel vuoto. 
Quando inizio a rallentare mi rendo conto che l’oscurità si sta gradualmente diradando e percepisco una presenza. Non la posso vedere ancora, ma sento la sua vicinanza, il suo calore, il suo respiro. La presenza si fa sempre più viva e ho paura a voltare lo sguardo. Ho paura di vedere quello che penso che vedrò. 
E infatti vicino a me adesso ci sei tu, coi tuoi lunghi capelli neri che ti tormentano il viso. Sei tu e mi guardi senza dire una parola, come al solito. Una specie di madonna muta, e quando tento di abbracciarti finisco solo per abbracciare me stesso. Il tuo fantasma precipita al mio fianco senza dire o fare niente, si limita a guardarmi fisso e io mi perdo nei labirinti della tua iride scura cercando di capire cosa vuoi dirmi, finché non mi ritrovo in un vicolo cieco. Uno di quelli da film poliziesco, con la rete metallica che devi scavalcare se vuoi fuggire dalla polizia che ti sta alle calcagna. E oltre la rete, un altro vicolo scuro con ai lati decine di bidoni della spazzatura, probabilmente abitati da gente in cerca di un rifugio per la notte. Scavalco la rete e corro senza mai guardarmi indietro, corro e basta, corro per raggiungere la luce in fondo al vicolo e quando la raggiungo sono già in mezzo a un deserto di rocce. Mi guardo i piedi e, senza sorprendermi troppo, noto che indosso degli stivali Camperos e alla vita porto un bel cinturone da cowboy con due pistole Colt che mi fanno ridere in maniera spropositata. La mia risata è talmente folle che persino gli avvoltoi che svolazzano sopra la mia testa sembrano sconvolti. 
Mi inginocchio in mezzo al nulla e rido e poi piango e poi prego perché tutto questo finisca. E alla fine della preghiera invece di concludere con “Amen” pronuncio il tuo nome e tu appari di nuovo davanti a me, questa volta più vera di prima. Mi prendi la mano e anche se non parli ora riesco a capire quello che vuoi dire. Leggo i tuoi pensieri. Capisco che c’è ancora tanta strada che devo fare e i chilometri di deserto sono centinaia e pieni di pericoli. Gli avvoltoi mi seguiranno e cadrò e mi rialzerò e cadrò ancora. Ma poi mi fai capire che le pistole che tengo nel cinturone sono quelle che tu mi hai donato tanti anni fa, quelle con il calcio di sandalo e il tamburo dorato. Nessun altro ha quelle pistole e con loro sarò sempre al sicuro perché possono uccidere un avvoltoio da una distanza di almeno 400 metri.  Io ti dico che non credo di essere un buon pistolero e che non sempre ho una buona mira. Tu sorridi e mi fai intendere che non devo preoccuparmi perché  anche se non avrò una buona mira il proiettile andrà a segno e colpirà quello che dovrà colpire, sarai tu a guidare la mia mano. Sempre tu. E allora prendi un proiettile e mi fai vedere, quasi a conferma di quello che sostieni, che sul rivestimento metallico ci sono incise le nostre iniziali e le nostre date di nascita ma non quelle di… Beh quelle li insomma. 
Mi baci e poi ti allontani. Lo fai con i tuoi movimenti sospesi ed eleganti, quelli che una vita fa mi hanno fatto innamorare di te, lo fai senza aggiungere nient’altro ma non hai di certo bisogno di altre trasmissioni di pensiero per dirmi che non ti posso seguire, perché nel posto in cui devi andare ci puoi stare solo tu per il momento. “Già” dico io ad alta voce “per il momento!”. 
Ma tu fai un sorriso evasivo, di quelli che uccidono più di qualsiasi pistola e di qualsiasi proiettile. Mi rialzo a fatica e ricomincio a camminare anche se le suole iniziano a sciogliersi sulla roccia rovente di questo deserto che non ha né un inizio né una fine, né passato, né futuro, solo un presente fatto di avvoltoi neri e pietra dura. 
Vedo in lontananza i lampi della tempesta che sta spazzando via le civiltà, quella tempesta devastante che ha dato inizio a questo insensato viaggio o sogno o non so nemmeno più io cosa sia. So solo che mi sento stanco e mi fanno male i piedi e ho un caldo infernale. Decido di fermarmi un attimo, accamparmi un po’ li, tra quelle rocce, almeno per questa notte, poi domani si vedrà. 
Il pensiero successivo lo faccio che sono tutto sudato, con la testa dalla parte opposta del cuscino e le lenzuola appallottolate in un angolo. Proprio come doveva essere, insomma, un sogno in piena regola, di quelli pesanti, indigesti e burrascosi. Intanto le tende sbattono violentemente contro l’anta della finestra che ho lasciato aperta. Mi alzo per chiuderla e guardo fuori. I lampi in lontananza illuminano il cielo che adesso ha il colore dello zolfo. 
Sembra proprio che stia arrivando un bel temporale.

Dreamed by: Master of Monsters.

martedì 4 ottobre 2011

La povera contadinella.

Sono una contadina.
Sono una povera contadina col suo carretto di cipolle e patate, in un villaggio medievale che sopravvive a stento.
Sono una povera contadina vestita di stracci e scarpe slacciate in una piazza piena di gente che ha fame.
Ma io non posso aiutarli, io no.

Oggi è un giorno speciale per me.
Oggi ho l'occasione di fare cambiare tutto.
Di non avere più fame.
Di non avere più freddo.
Di non avere più sonno.
Di non avere più paura.

Oggi il re verrà a fare visita al mio carretto.
E se gli piacerà quello che vedrà, mi prenderà a lavorare per lui. E non vedrà più l'orrore e la polvere della strada.
E il mio carretto lo sa, ed è diventato grande e magnifico. Le sue ossa di legno che ne sorreggono la struttura potente, così potente che ci si può mangiare sopra.

Ed è questo quello che farò, farò mangiare il re sul mio carretto, su divani fatti di stracci e cuscini fatti di piume. E cucinerò per lui cipolle alla brace e squisiti dolcetti di nocciole raccolte dagli alberi.
Ma qualcosa non va in questa magia, perché gli stracci restano stracci, e le cipolle restano cipolle. Il mio salotto fatato non prende vita, e tutto ha l'aspetto di un edificio distrutto dai colpi di un'invasione barbarica.
Il re sta arrivando.

E come accade ogni volta che si potrebbe salvare la situazione all'ultimo minuto,
con un piccolo miracolo degno dei migliori sogni,
con un deus ex machina che risolve tutto e lascia aperta la strada al lieto fine,
mentre vedo la mia occasione che mi corre incontro a falcate ampie, accompagnato da una schiera di vallassi e valvassori, con cappelli piumati e mantelli di broccato,
ecco che io,
proprio adesso,
proprio ora che non tutto è perduto,
proprio al sorgere del momento più importante di questa vita da povera,
ecco,
io
devo correre in bagno col mal di pancia.

Dreamed by: Co.

lunedì 3 ottobre 2011

La maturità.

Oh. E finalmente me la sogno sta maturità. E finalmente ci torno su quei banchi scrostati e sbiaditi dal tempo, come tutti i cristiani hanno fatto prima o poi.

E finalmente la busta che si apre, e il foglio che esce, che non vedi cosa c'è scritto dietro. E quei preziosi secondi che si dilatano prima che ti dicano il titolo del tema.

E tu e la rabbia, che la rabbia allora non c'era ma adesso si, a vagonate, e neanche tu sai perché ma ti senti la faccia rossa, con i pensieri che stanno per esploderle dietro.

E nella testa? Le materie non le so. Non me le ricordo più.
La matematica non la so. L'italiano non lo so. Le scienze non le so.
Il tema lo scrivo, si che lo scrivo, ma perché ho fantasia. Io.

Ma io lavoro, prof, non lo vede che lavoro? Che son grande e pago l'affitto e l'assicurazione dell'auto, che questi sbarbatelli qui neanche se l'immaginano cos'è che viene dopo. Cos'è che viene dopo, prof?
Perché mi guardano tutti, prof? Cos'ho fatto di male?
Che questo non è più il mio posto prof, io lo so, ma uno nuovo ancora non lo so se ce l'ho.
Vabbè prof, ho capito. Me ne vado.

Esco dall'aula e cristo, il titolo di quel tema non lo saprò mai.

Dreamed by: Co.

mercoledì 28 settembre 2011

L'angostura.

È la sera di Natale. Lo so perché ho addosso quella vaga sensazione di disagio che accompagna tutti i Natali della mia vita. Però forse questa volta è diverso. Sì, perché alla fine chi mi impedisce di uscire e perdermi tra la gente, facendo finta che sia un giorno qualsiasi? Nel mondo reale non lo farei mai, troppi doveri, troppi legami di cui prendersi cura, troppe persone a cui farei un torto rivelando così candidamente la mia avversione per la festa più amata dalle famiglie. Però questo è un sogno, perché se guardo in alto vedo tre lune, una più grande e piena e due più piccole che le gravitano attorno lentamente. Ed è davvero uno spettacolo incredibile. Perciò sì, dev'essere proprio un sogno e in un mondo in cui è normale che la notte sia illuminata da tre lune è anche normale che io mi dilegui senza lasciare traccia la sera di Natale. Quindi percorro un lungo viale che dovrebbe essere quello di casa mia e punto l'uscita, calma ma decisa, come un evaso che cerca di non dare nell'occhio mentre si sta giocando il resto della sua vita e, sotto il cappotto, il cuore pompa a mille. Sono certa che ce la farò, ce l'ho quasi fatta ma poi ecco, lo sapevo. Un'auto ha appena varcato il cancello e sta avanzando verso di me. No. Si ferma, gli sportelli si aprono, tutti e 4 insieme, e vedo scendere una folla di parenti. Non è possibile che in una utilitaria ci stia tutta quella gente. Eppure sono tanti, continuano a scendere e io davvero non credo di conoscerli tutti. Fingo meraviglia, felicità e solidarietà natalizia, mentre dentro di me i sogni di libertà si accartocciano e muoiono.
Poi all'imrpovviso sono in casa. E qualcuno mi ha appena fatto un regalo. Assomiglia a un barattolo di Nutella, ma dentro c'è una strana crema composta in strati di colori accesi, dal blu al giallo al viola. Non è che mi venga troppa voglia di assaggiarla. Ma poi mi dicono che si tratta di Nutella all'angostura. Ooooh. Per qualche motivo mi si spalanca un mondo nuovo, così la provo. E ora che l'angostura è entrata nella mia vita, forse posso sopportare anche il Natale.

Dreamed by: Monsters

venerdì 22 luglio 2011

Lo scontro in scooter, di X-Senefrega.


Mi aggiro con lo scooter in una città uggiosa. Le strade sono più grigie e malinconiche che mai. Vago tra discese e salite alla ricerca del ristorante in cui mi ha dato appuntamento mia sorella. Ho come l’impressione però di non controllare completamente il motociclo,che fa di testata sua. Su un dosso che nasconde l’orizzonte lo scooter schizza via, ma come un X-fighter riesco a riappropriarmene in volo. Altro giro, altra prova. Nei pressi di una piazza lo scooter prende nuovamente velocità e vengo catapultato per aria. Per contenere il salto mi aggrappo ad un lampione che per forza centrifuga si avvita a quello a fianco come un tralcio di vite. Scendo giù ancora roteando come un acrobata. Faccio il disinvolto con la speranza che i vigili urbani - intenti a multare una coppia di ragazzi - non mi abbiano visto. Macché, non aspettavano altro. Sono in due, l’appuntato e il maresciallo. Gli spiego che mi dispiace e che non l’ho fatto apposta e poi non mi sembra si tratti di un’infrazione. L’appuntato mi fa capire che se potesse chiuderebbe un occhio ma non è lui che comanda. Così, redatto il verbale, continua a giocare al pc con il maresciallo. Stanno giocando a Street Fighter con i personaggi che disegnano in tempo reale su una tavoletta grafica. Il computer interpreta e ottimizza le bozze fatte a mano. Ormai ignorano me e la mia curiosità giacché la multa è stata emessa: 700 €. Una cifra ragguardevole per un precario. E poi dovrebbe essere il comune a pagare me per questo pezzo di Street Art che chiamerei “Intralcio di Luci”.


dreamed by: X-Senefrega.
Il suo blog: E chi se ne frega

giovedì 21 luglio 2011

The show must go on.

Corro. Qualcuno, davanti a me, mi tiene saldo per mano guidandomi in una corsa a perdi fiato lungo un corridoio in penombra, straripante di oggetti e ostacoli di ogni tipo. Schivo una cassa di legno, salto oltre un accrocchio di cavi e prese elettriche, abbasso la testa per evitare un riflettore, inciampo sul tessuto spesso di una tenda. È chiaro, sono dietro le quinte di in un teatro, nei meandri di cunicoli che tra scale, scalette, angoli bui e macchinisti incazzati, conducono al palco. Quello che mi tiene per mano ha molta fretta, perchè non ci fermiamo mai, neanche per riprendere fiato. "Comincia lo spettacolo" mi dice, e io mi chiedo come mai non siamo seduti in una poltrona in platea, come tutto il normale pubblico pagante. In effetti, non ricordo di aver pagato un biglietto. Poi, finalmente ci fermiamo, in un piccolo spazio tra una quinta e l'altra su un lato del palco. Da qui, ho una visuale incredibile: vedo gli attori e le luci che aggrediscono impietose i loro volti e le minuscole crepe d'emozione sulle loro fronti,  nascoste dal cerone e da anni di metodo Stanislavskij. Sento il fruscio dei costumi e l'odore della lacca. Potrei quasi sedermi in un angolino e godermi lo spettacolo. Ma non ho neanche finito di formulare il pensiero, che il tizio che è con me mi mette in mano   un malloppo di fogli e mi dice "tocca a noi". Ecco. Sapevo che dietro c'era la fregatura. Guardo lui, il palco, i fogli, che naturalmente sono il copione. Che naturalmente io non conosco. Guardo me, in uno specchio,  sono in jeans e senza trucco mentre lì fuori c'è probabilmente la crema del panorama teatrale contemporaneo. Eppure, che io sappia, neanche il tizio ha studiato e neanche lui è in costume. Per cui sarò felice di dividere con lui questa scena tragicomica, se è quello che vuole. In un attimo siamo sul palco. Due alieni in converse, con la faccia di bronzo e la coda di paglia. Lui si inchina e io con lui e mi rendo conto, senza troppa sorpresa, che lui lo fa con una certa grazia mentre io ho la scioltezza di un impiegato giapponese. Adesso forse dovrò dire la mia battuta, quella che non so, e il panico comincia a salirmi in gola in bolle amare di saliva. Invece comincia il mio socio. Si siede su un pezzo di scenografia e parte con  un monologo che sembra non finire mai, incalzante, coinvolgente e incredibilmente ispirato. Quando finisce tutto il teatro è in piedi, in un delirio di commozione e applausi. È la prima volta che mi chiedo chi sia questo individuo. Eppure il pubblico lo ama. Gli attori lo amano. E forse, anche io.  

Dreamed by: Monsters

sabato 16 luglio 2011

La Playstation antelucana.

Uno va al cinema per rilassarsi, giusto?
E si vede che son nervosa, perché per andare al cinema questa sera decido di fare un rally su e giù per la sopraelevata con il mio fuoristrada 4x4. Giù aiuole, giù cartelli stradali, giù motociclisti; e già che ci sono faccio anche un secondo passaggio, casomai fosse rimasto qualcosa in piedi.
Al cinema ci vado da sola, e quando esco dalla proiezione mi metto a chiaccherare con una ragazza che incontro nel foyer; mi volto e vedo accanto a me un tizio con cui ho fatto un colloquio qualche anno fa.
Uellà, gli dico, a corto di argomenti.
E' diverso da come me lo ricordavo; è tranquillo e sorridente, con il suo giubbotto e il suo zaino sulle spalle.
Vieni da me a giocare alla Playstation, mi dice, magari intanto mi racconti come ti vanno le cose.
Ok, dico io, salendo sul mio fuoristrada che durante il film si è come sgonfiato ed è diventato una biciletta sfigatissima. Lo seguo fino a casa, ed è una delusione: dopo un ingresso spettacolare, degno di uno dei migliori establishment Californiani, ci infiliamo in questo mini appartamento dove vive in condivisione con due suoi stagisti.
Strano, penso io.
I due sono odiosi, girano in mutande e canotta per casa e fanno di tutto per rubarmi il joystick di mano. Il mio ospite è passivo, completamente disinteressato dalla situazione, al punto che saluta tutti e se ne va a dormire.
Penso proprio che sia il caso di andarmene, e indispettita dal trattamento ricevuto esco senza salutare.
Però mi perdo nel labirinto dello stabile, e in più mi rendo conto di aver dimenticato la borsa da loro; così torno indietro, recupero la borsa e mi faccio accompagnare fino al cancello.
Dietro di me, nel giardino tropicale del complesso edilizio più sfarzoso di questo lato del mondo, l'acqua della piscina si increspa leggermente, mossa da un leggerissimo alito di vento spinto fino a qui da un cielo così perfetto da sembrare finto.
Salgo sulla bici che albeggia, e imbocco la sopraelevata che arriva dritta dritta a casa dei miei.
Hai fatto tardi, dice mia madre in un'alba rosata.
Non sai quanto, dico io, e nel mio sogno mi addormento al quadrato.

Dreamed by: Co.

mercoledì 6 luglio 2011

La visione, di X-senefrega

Mi trovo nella stanzetta dell’appartamento in cui sono cresciuto con tutta la famiglia. Ci stiamo preparando per partire, per andare come di consueto al paese di mio padre, che soffrendo maledettamente il caldo è in canottiera di spalle alla serranda semichiusa. Gli dico che ho incontrato i suoi amici che mi hanno chiesto di lui. Gli ho risposto che siamo in partenza. Lui si innervosisce e mi dice che non avrei dovuto perché non si sa mai, perché potrebbe esserci un imprevisto. Mia sorella, la grande, ci tiene a precisare che gli imprevisti regalano le sorprese più belle, come quando il Papa vide la Madonna all’improvviso. Le dico che se le minchiate fossero pane lei gestirebbe un forno molto redditizio. Mia sorella, la piccola, si piega in due dalle risate. Persino mia madre - tipico esempio di cristiana credente-praticante-professante - la manda a cagare. Calano le tenebre e andiamo a dormire in attesa della partenza. Dormo disteso, vestito, prono. Sul letto a cassetto a fianco ci sono le mie sorelle in posizione testa/piedi. Il mio sonno viene turbato da qualcosa. Il buio viene rischiarato da un fascio di luce flebile avvolto in una nuvola di fumo candido. Mi giro intorpidito e subito metto a fuoco l’apparizione. È la Madonna. Ma non ha sembianze umane, statuarie o evanescenti. Ha la stessa consistenza dei personaggi del presepe. Spigolosa, dura e con la base piatta. Però è Lei. Mi butto a terra per implorare perdono. Ho sbagliato, non dovevo deridere mia sorella mettendo in dubbio l’esistenza dei miracoli. Corro sconvolto verso il bagno dove mi guardo allo specchio piangendo con il volto informe di un diciassettenne. Piango, piango, piango di straniamento.


dreamed by: X-Senefrega.
Il suo blog: E chi se ne frega

martedì 5 luglio 2011

La colazione mancata.

Nel mio sogno sono nel mio letto.
Sogno e son desta.
Nel mio sogno c'è un uomo nel mio letto.
Nel mio sogno lui si sveglia la mattina e un raggio di sole gli illumina gli occhi semiaperti.
Nel mio sogno lui si sveglia che ha fame, e vuole la sua colazione.
Nel mio sogno vado in cucina e tiro fuori latte, caffé, pane e marmellata, ma lui vuole molto di più. Vuole uova e pancetta a colazione. E così devo rubare un uovo, un solo uovo, alla mia coinquilina, che però mi coglie in flagrante, e quindi per fargli queste benedette uova benedette a colazione io devo scendere, andare al supermercato, comprare un uovo, un solo uovo, poi risalire le scale e trovarlo con le pentole in fiamme perché il genio ha ben pensato, in mia assenza, di riscaldare l'olio nel frattempo.
Nel mio sogno tutto va in fumo, anche i sentimenti, perché lui che si è svegliato vicino a me è esasperato da  questa situazione e con una scusa banale se ne va.
Nel mio sogno penso che se fosse un sogno vorrei svegliarmi.

Poi mi sveglio.
E l'uomo nel mio letto a colazione vuole brioches.
Yeah.

Dreamed by: Co.

martedì 31 maggio 2011

La caprese metafisica

Un giro in bicicletta in una Milano metafisica, che sembra un quadro di De Chirico: strade dritte e vuote, forme geometriche contro un cielo irreale, ombre nette che tagliano il terreno rosso. Sono con Co. e c'è un silenzio inquietante. Poi ci ritroviamo a casa di qualcuno, io e lei, i miei e i suoi genitori. Strana adunata. E la cosa ancora più strana è che siamo lì da ore perché le nostre famiglie si stanno facendo leggere il futuro da un tizio non meglio identificato. A quanto pare, la cosa è lunga e delicata perché non si può parlare, no si può sbuffare e ovviamente, non si può andare via. Quando sento che potrei morire di inedia incollata a quella sedia, finalmente succede qualcosa. Qualcuno dice che è ora di andare a cena e una porta si apre alla nostra sinistra. Ci ritroviamo su un molo e dal molo su un catamarano. Nello spazio vuoto tra uno scafo e l'altro, al posto della rete di protezione, c'è una tovaglia apparecchiata, con bicchieri di cristallo e piatti di porcellana e vino e tovaglioli di lino. Potremo cenare sotto le stelle sospesi tra acqua e vento, mentre il catamarano scivola silenzioso verso il largo. 
All'improvviso ci ritroviamo su una spiaggia. È giorno e ci sono altre persone. Guardo l'acqua e mi accorgo che non si tratta di un posto normale. Perchè in quest'acqua la gente pesca mozzarelle di bufala. Le vedo fluttuare qua e là come piccole meduse di latte. Basta allungare una mano e raccoglierne una. Se trovassi dei pomodori tra le dune, e un gabbiano mi passasse una foglia di basilico, si potrebbe fare una caprese.  


Dreamed by: Monsters.

giovedì 26 maggio 2011

La piccionaia.

'Sti passeri fanno un gran casino. Non mi lasciano proprio dormire. Questa notte mi sveglio ogni dieci minuti per colpa del loro continuo ciarlare, infilo la testa sotto al cuscino ma mi danno veramente il tormento. Poi accade il miracolo. Sarà il sonno, sarà il caldo, ma riesco a capire cosa si dicono.
Si, ecco, si stanno lamentando. Si lamentano perché... hanno fame. Hanno molta fame. Sono molto, molto arrabbiati, ecco perché cinguettano così forte. Sono arrabbiati perché non c'è più niente da mangiare in giro. Niente più mollichine di pane: nessuno sbriciola più niente in giro. Da quando è uscita una nuova varietà d'olio tutti mangiano tutto il pane fino all'ultima briciola e non gliene lasciano neanche un pezzetto.
I passeri sono arabbiati, checcavolo, e c'hanno pure ragione. Il loro comizio sui fili del telefono sembra non avere fine ma io mi associo alla causa dall'altra parte delle tapparelle semichiuse.
Il primo fascio di luce che le attraversa mi fa pensare che forse ho sognato.
Il secondo, che ho sognato una splendida campagna pubblicitaria.
Il terzo, che non è poi così splendida. Cavolo.

Dreamed by: Co.

mercoledì 25 maggio 2011

La Fame, di X-Senefrega

In un vecchio motel una televisione d’epoca mi obbliga alla visione di un genere per cui ho un rigetto. In un paese sperduto dell’entroterra peninsulare sta passando Lele. Le strade sono polverose e abbandonate, puzzano di terra, di rancido, di negligenza. Le porte di legno ingrigito dal tempo sono sbarrate. Non c’è anima viva. Nel suo cammino solitario Lele incontra un gruppo di adolescenti cenciosi. Occhi storti, denti sgranati, pelle sporca. Gli vanno incontro e lo circondano. Ha acceso in loro l’istinto più brutale. La fame. L’alito dei cani, pronti a cibarsi degli avanzi dei loro migliori amici, infetta l’aria invocando il cannibalismo. Il gruppetto inizia a molestare Lele nella speranza che il suo vigore sfiorisca sfiancato dalle insistenti avances. Lo toccano, lo strattonano, ma non hanno la forza di afferrarlo definitivamente per cibarsene. Lele sbraccia, spartisce pugni e sputi in segno di disprezzo per allontanarli. Ma loro non mollano, anche se non hanno la forza per correre gli stanno alle calcagna barcollandogli addosso e impedendogli la fuga. Lele non riesce a divincolarsi da questo cerchio infernale, la sua anima è solo un dessert. Ferma in un vicolo c’è una bicicletta rossa da donna. Dea ex machina. La prende al volo lasciandoseli alle spalle. Ora bisogna scappare dai carnefici, bisogna lasciare il paese. Purtroppo si deve passare attraverso una galleria privata a forma di imbuto, gli ingressi sono contrapposti agli apici. Un traforo di cemento a forma di U. Qualunque sia il tuo ingresso, l’uscita va scalata energicamente a causa della pendenza. L’ingresso è spalancato perché qualcuno è appena entrato precedendo Lele che si lancia in una discesa forsennata per non patire troppo la ripida salita. Ma l’uscita è già sbarrata. Da una feritoia scorge una gang dietro le porte di ferro. Sono grandi, grossi, virili, motorizzati, professionisti della caccia all’uomo. È la serie A dell'antropofagia. Stanno cercando la chiave di ingresso e se lo prendono è la fine. Lele fa spasmodicamente dietro-front nella speranza di potersi nascondere in un anfratto, ma il tunnel è deserto. Non ha angoli, rientranze o colonne dietro cui rannicchiarsi. Stavolta la rincorsa non gli è bastata, deve prendere a braccio la bicicletta per non privarsene in seguito. In cima alla salita, sulla destra c'è uno scorri mano a cui aggrapparsi per non scivolare giù e una presa d’aria larga appena un metro quadrato. Il cellophane impedisce di testarne l’ampiezza, dilaniarlo gli toglierà altri secondi utili alla salvezza. La gang sta sferragliando per aprire il portone e il rumore si fa sempre più forte. Con una piccola manovra Lele riesce a spingere fuori la bicicletta forzandone il telaio. Il portone si spalanca, la gang si prepara all’ingresso.


dreamed by: X-Senefrega.
Il suo blog: E chi se ne frega

martedì 24 maggio 2011

La gita al lago, di Giulia.

E' una bella giornata primaverile. Si va a fare una gita nei pressi di un lago, a bordo di un pullman. Ci sono io e un tot di adulti che accompagniamo i nostri figli di circa 5 o 6 anni. L'autista del pullman si ferma, è il mio collega ciccione, si alza e fa un annuncio ai pargoli "mi raccomando, una sosta breve e fate attenzione al lago, potreste cadere.." visibilmente preoccupato. Apre le porte. Scende solo mio figlio. Un tipetto antipatico e un sacco irriverente nei modi, ma estremamente lord negli abiti. Si avvicina alla riva e fa finta di fare pipì. Si gira verso di me e con fare sfacciatamente beffardo mi sorride e si butta nel lago. Proprio l'opposto di quanto gli avevamo detto. Non riemerge. Io pacata e con una sensazione di serafica rassegnazione dico "aiuto. aiuto..." a un paio di sommozzatori che sono in acqua, assieme ad altri bagnanti. Non mi sentono, lo dico un po' più forte, ma senza allarmismo. Lo salvano e me lo depositano sulla riva. Sta benissimo, ha ancora il ghigno beffardo addosso. Quand'ecco che arriva mio marito. Uno spilungone insulso, magro, vestito bene, con un inspiegabile sorriso idiota sul volto, ed esclama tutto entusiasta "dai dai che ora si fa la pappa! cosa preferisci? petto o coscia?" rivolgendosi alla piccola canaglia. Io lo guardo e dico "abbi pazienza, ma dopo questa bravata è già tanto che gli diamo da mangiare, non credi?"...

Dreamed by: Giulia.

L'albergo zombie.

Oh, finalmente in vacanza.
Abbiamo trovato questo alberghetto veramente carino: un grande giardino con tanti piccoli bungalow intorno.
Il tramonto splende sul nostro arrivo, sulle nostre spalle pesanti che lasciano scivolare a terra le valigie, sulle nostre fronti sudate che finalmente trovano respiro, sui nostri sospiri di approvazione.
Nei nostri vestiti migliori ci avviamo al ristorante e torniamo finalmente sazi e contenti. Pronti per la notte, per un lungo sonno, per un lungo sogno. Solo che.
Quando scompare l'ultimo raggio di sole e sento ruotare l'ultima mandata della chiave nella toppa comincia l'incubo. Rumori. Gente che cerca di entrare in  camera. Guardo fuori dalla finestra: zombie. Siamo invasi, siamo impotenti. Qualcuno, da qualche parte, spara con un grosso fucile a pompa e li mette in fuga.
E' finita, ma non troppo. Il mattino ci coglie stanchi e sudati, ancora spaventati: l'unica preoccupazione è prepararsi per l'attacco di stanotte. Fucili, travi di legno, chiodi. La stanza viene tappezzata di ogni possibile arma: questi cosi non muoiono mai, possiamo solo sperare di farli fuggire.
Notte dopo notte fronteggiamo con coraggio quest'orda di non morti che si fa sempre più insistente, più affamata, più violenta. le loro braccia verdi e puzzolenti trapassano le finestre, i vetri rotti, i loro piedi pesanti sfondano il legno delle porte.
Questa è l'ultima notte. Ieri sono quasi entrati. Siamo appollaiati sugli scaffali dove un tempo ci sarebbero stati lampade e vasi di fiori; ora ci siamo noi in una trincea improvvisata, con i fucili in mano e il ticchiettare dei minuti nelle orecchie, chiedendoci da quale parte comincerà l'offensiva questa volta.
Se sopravviveremo potremo tornare a casa, all'alba.
Che vacanza di merda, comunque.

Dreamed by: Co.

lunedì 23 maggio 2011

La Monster nascosta.

Ho comprato la Monster.
Nera. Bella, lucida e splendente. Mia, mia, tutta mia.
Ordine telefonico, trac. Pagamento via home banking, trac. Coordinate, assicurazione, trac.
Non rimane che  andare a prenderla.
Carico Monsters in macchina e ci avventuriamo in un luogo sperduto a prendere la mia moto: Monsters guiderà la mia auto al ritorno. Che questo posto mi sembra di averlo già visto in verità.
E infatti è la casa in montagna di un nostro amico. Guardo il biglietto dove ho scritto l'indirizzo, non è possibile. E invece si, è proprio qui. La mia moto è in fondo al suo giardino, e non ci sarebbe nessun problema se lui proprio in quel momento non stesse dando una festa con centinaia di persone che mi ostruiscono il passaggio.
Mi districo in quel groviglio di mani, bocche, voci, costolette di maiale, bicchieri di vino rosso, labbra cobalto, risate troppo forti, ballerine ai piedi, gonne a balze, tavoli di legno, porte verso l'interno, porte verso l'esterno, zanzariere, grappini, amari. Lui manco l'ho visto in mezzo a tutto sto marasma.
Ma lei sì. Eccola lì. E' mia. Mi ha aspettato fino a ora.
La prendo gentilmente per il manubrio e la accompagno fuori. Piano piano.
E proprio sul cancello, mentre sto uscendo, c'è il padrone di casa.
Gli dico, bella eh.
E lui la guarda e mi dice, pfui, bella un cavolo. E' una moto da donna.
Ci rimango male anche se, dopotutto, poteva aspettarselo: anche in sogno sono una donna, e questo dato di fatto mi risulta tuttora difficile da cambiare.
E comunque poteva anche evitare di farmi fare tutta sta fatica per prendermi la mia Monster nascosta, ecco.

Dreamed by: Co.

mercoledì 18 maggio 2011

L'alopecia.

Ho deciso. Torno a casa.
Imballo tutte le mie valigie e torno a vivere dai miei.
Arrivo a Bologna in un mattino di sole. Ray Ban Wayfarer e tacchi alti. Decido di andare a mangiare un gelato in centro, nella mia gelateria preferita, quella di cui non ricordo mai il nome.
Seduta su una panchina illuminata mi fermo a guardare il via vai delle persone della mia città, sentendomi un'estranea ma guardando tutto con tenerezza. In fondo appartengo a questo, penso. Chissà se mi abituerò mai all'idea.
All'improvviso spunta un'amica del liceo che non vedevo da secoli. E' sempre uguale, il culo un po' grosso, i pantaloni della tuta che si portano con dignità solo in questo paesone di campagna, le scarpe da corsa. E un cane. Ci fermiamo a parlare e io non le dico neanche degli anni passati altrove, tanto non avrebbe senso.
Lei invece mi racconta tantissime cose, mi parla di sua madre, della sua famiglia. E di quel cagnetto pulcioso che si porta appresso.
E' speciale, dice lei.
Perché? Chiedo io.
Perché ha l'alopecia, dice lei.
Lo guardo: effettivamente, oltre a essere molto brutto, sembra anche molto malato. Ciuffi di peli gli cadono da tutte le parti lasciando scoperte intere sezioni di pelle.
E' un cane decisamente sfigato, penso. Però sembra felice lo stesso, ed è questo, in fondo, quello che conta, in questa mattina piena di sole nella mia casa ritrovata.

Dreamed by: Co

The wilderness

 Un mercoledì mattina qualunque, a Milano. Mi sveglio e mentalmente comincio a pensare a tutte le azioni meccaniche che mi tocca svolgere prima di arrivare in agenzia. Mangiare biscotto, lavare denti, indossare biancheria pulita, prendere chiavi macchina. Poi però decido di fare una cosa diversa, un dirottamento sul mio immutabile binario mattutino.  E così, in un attimo, sono su una spiaggia. Mi tolgo le scarpe e sento la sabbia umida sotto i piedi. Bello. Senza pensare comincio a spogliarmi, mollo pezzi di abbigliamento sul bagnasciuga, poi cerco di sistemarli e piegarli un po' meglio, dopo dovrò essere presentabile, e invece il vento li scuote e li riempie di sabbia e io penso "ma sì, chi se ne frega". Entro in acqua ed è una sensazione che mi mancava. Non potrei bagnarmi i capelli perché dopo devo andare in agenzia, e invece gli schizzi mi arrivano ovunque e io penso "ma sì, chi se ne frega".  Lo stesso destino di menefreghismo tocca ai fogli che mi ritrovo in mano: email e appunti che finiscono letteralmente ai pesci. 
Poi esco dall'acqua e sono felice. Mi viene in mente quella parola inglese che non ha una traduzione esatta in italiano. The wilderness. Con orgoglio, voglio portare la mia "selvatichezza" tra i corridoi della Milano che produce.  Bagnata e scombinata, indosserò i vestiti stropicciati sulla pelle salata, infilerò i piedi insabbiati nelle ballerine da ragazza per bene e con gusto ascolterò il rumore fradicio dei miei passi mentre torno a fare il mio dovere. 

Dreamed by: Monsters

venerdì 29 aprile 2011

Il MaleFicus Macrophylla, di X-Senefrega

È un tardo pomeriggio primaverile e la sera sta scendendo lentamente sulla nostra pelle per appiccicarsi sopra come resina. Siamo un gruppo scanzonato di amici alla ricerca di un po' di spensieratezza all'interno di una villa che è diventata punto di incontro per giovani. Ad un tratto ci ritroviamo di fronte un maestoso e malefico Ficus Macrophylla che ha ingurgitato segretamente qualcosa che ci appartiene. Lo guardiamo basiti perché sembra un calamaro di legno. Le fauci intricate rendono il suo interno imperscrutabile. Tra le stalagmiti fibrose vediamo vorticare mattoni di compensato che turbinano verso l'alto per scomparire nel nulla. Ma non è quello che stiamo cercando, anche se neanche noi sappiamo perché siamo stati calamitati lì. Ma eccola. Sembra la mia borsa Timberland avvolta in un groviglio inestricabile. Sono sicuro che non riuscirà a ingurgitare lo scudo delle mie innumerevoli battaglie. Dovrà buttarla giù tutta d'un pezzo per scoprirla indigesta. Dall'alto delle fauci però spunta improvvisamente una sega circolare pronta a farne poltiglia. Man Mano che la borsa viene disintegrata alcuni pesciolini d'argento e altri macro parassiti gli ruotano attorno per ripulirne gli avanzi come premurosi inservienti. Che disdetta. Siamo ancora lì inermi ad osservare il crudele spettacolo della natura di cui non capiamo il senso.  



dreamed by: X-Senefrega.
Il suo blog: E chi se ne frega

mercoledì 27 aprile 2011

Il tribunale.

Eccoli là. Tutti pronti a giudicarmi. Tutti seduti sui loro scranni pesanti e lo sguardo inquisitorio.
Il tribunale è affollato e mi sembra un po' eccessivo, visto che non so i capi dell'accusa ma non mi sembra di aver fatto niente di diverso dal solito ultimamente.
La cosa strana è che intorno a me vedo tante facce note. Facce di tutti i giorni. Sono i miei colleghi e questo è un tribunale lavorativo.
Provo a elencare i miei possibili errori. Avrò sbagliato a scrivere un documento? Avrò inviato degli insulti via mail all'indirizzo sbagliato? Avrò perso un cliente?
Non mi viene in mente proprio niente, e la sensazione che la reazione sia esagerata persiste.
Alzo lo sguardo verso il giudice e verso la sua parrucca boccolosa, poi mi volto di nuovo verso il pubblico: sono pronti a giudicarmi, è vero, ma tutti vestiti di stracci e brandelli di stoffa. Il più pulito qui dentro è coperto di pulci e polvere della strada, colori sbiaditi dalle fatiche di ogni giorno.
Io ho un bel vestito a fiori.
Sorrido al giudice. Forse non sono così colpevole, in fondo.

Dreamed by: Co

martedì 19 aprile 2011

La Cenerentola dei poveri.

Sono in una piazza abbandonata. Siamo nella periferia di una grande città; intorno a noi, i cancelli chiusi di tante villette familiari.
Tutto è grigio. Il pavimento di porfido, i cancelli, il cielo. La campagna che intravvedo oltre i muri, un campanile sospeso in lontananza. Il vento gelido del Nord mi attraversa le ossa e i capelli.
In mezzo a questa piazza, un gruppetto di giovani rocknrollas sta accordando gli strumenti. Io ho una canottiera a fiori, un paio jeans bucati, infradito e un cane nero al guinzaglio: cosa ci faccio qui, conciata in questo modo?
Evidentemente conosco i ragazzi, perché mi invitano a sedermi su una panca fatta di vecchi scatoloni e travi di legno. L'hanno fatta apposta per me, pare.
Poi si mettono a suonare, e sono fantastici. Loro sono i Mando Diao, tutti insieme siamo nel bel mezzo del niente e stanno suonando solo per me. Eppure non sanno di essere i Mando Diao, perché sono insicuri. Mi chiedono pareri, vogliono sapere se li trovo bravi. Cristo, penso dentro di me, è un sogno che si avvera e neanche se ne rendono conto. Io sono entusiasta, esterrefatta, e loro sono sempre più bravi ad ogni canzone.
Poi smettono di suonare e cominciano a riporre gli strumenti. Parlano a bassa voce tra di loro. So che stanno parlando di me, ma non so di cosa.
Poi lo capisco: Bjorn si avvicina a me e mi chiede di fare due passi. Io e il mio cane randagio ma non troppo lo seguiamo. E appena svoltati l'angolo, in un vicolo grigio quanto il cielo, mi dice che mi ha sempre amato. Che è perdutamente innamorato di me. Che mi ha invitato lì per questo motivo. Che vorrebbe baciarmi, ma non sa come fare.
Dentro di me è esplosa una bomba atomica, fuori di me tutto tace. Mi appoggio pigramente al muro di una casa, sento il ruvido dei mattoni sulla schiena nuda. Faccio finta che non mi interessi niente solo per farmi baciare meglio.
E' un bacio lunghissimo, come quelli che capitano solo in sogno. Le sue mani sulla mia faccia, il suo giubbotto di pelle morbida che si appoggia delicatamente su di me, i suoi capelli incontrollati nel vento freddo del nord. Gli occhi chiusi e il cuore aperto.
E dopo questo bacio lunghissimo me ne vado, sola col mio cane al guinzaglio. Un'esplosione di farfalle nello stomaco e lo sciabattare delle mie Havajanas. Torno nel basement dove vivo, mi rintano nelle mie fondamenta come una Cenerentola dei poveri, a guardare un timido raggio di sole dalle sbarre di una finestra troppo piccola.
Bjorn. Proprio tu. Non saprai mai quanto ti ho aspettato.

Dreamed by: Co.

martedì 5 aprile 2011

La visita.

Casa dei miei, al mare. Apro la porta della mia stanza, accendo la luce e vedo un fagottino di coperte che respira piano, sul mio letto. Deve essere un bambino, non riesco a vederlo da qui. Non lo sapevo, altrimenti la luce non l'averei accesa. E poi cosa cavolo ci fa un bambino nel mio letto. Spengo, cerco di chiudere la porta senza fare rumore, ma è troppo tardi. Il fagottino si smuove, si sfalda e vedo spuntare la testolina bionda di una bambina. Avrà cinque anni, all'incirca e una camicia da notte rosa. 
È lei. Ne sono certa. Si alza, mi viene incontro. Ci sediamo sull'altro letto, una di fianco all'altra.
"Sai che tu sei la mia sorellina?" le dico.
Mi guarda, sembra non capire. Però sorride.
"Il tuo papà è anche il mio papà" le dico ancora. 
E allora fa una di quelle risatine di cristallo, di cui solo i bambini sono capaci. E poi mi abbraccia. 
Ciao, Michi.

Dreamed by: Monsters

lunedì 21 marzo 2011

L'evacuazione improvvisa.

Ecco, ci siamo. Suonano le sirene. E' allarme, è panico.
Dobbiamo evacuare il palazzo, la zona, la città. Nessuno sa perché ma tutti se lo aspettavano. Fiumi di gente cominciano a correre fuori dai portoni, verso la salvezza, verso cosa non si sa.
Io no, io non sono pronta. Che succede, qualcuno mi dica qualcosa. Ecco, ecco, qualcuno mi dice di fare una valigia e cominciare a correre. Va bene, va bene. Faccio la valigia.
Apro una vecchia valigia consunta dal tempo e dai chilometri e comincio meticolosamente a riempirla, mentre una dopo l'altra sento riecheggiare le esplosioni. Magliette. Boom. Biancheria. Boom. Una giacca pesante, non si sa mai, soprattutto se non sai dove stai andando. Boom. Libri, potrei annoiarmi. Boom. Penne. Qualcuno dovrà pur scrivere. Boom. L'impalcatura di ferro sottile del mio letto a castello trema mentre sono indecisa sul numero di jeans da portare.
Ma non c'è tempo, non ce n'è più. Devo andare. La valigia non si chiude e mentre corro perdo ogni cosa per strada. E' sempre inutile cercare di portarsi dietro qualcosa dal passato, penso, mentre nelle mie orecchie rimbombano boati sempre più forti.
Sono più vicini, adesso. Forse non sono bombe. In questo vagone di salvataggio c'è gente che dice si tratti di un'invasione di dinosauri. Boom, boom. Ma nessuno ha risposte precise. Non c'è tempo neanche per avere paura, qui dentro.

Dreamed by: Co

martedì 15 marzo 2011

La sindrome cinese.



Sono in barca. Finalmente, le sensazioni che riconosco. Salsedine, stelle, casa. Però c’è qualcosa che non va. La barca è in una distesa d’acqua immobile, piatta e opaca come un foglio di carta nuova, Il cielo è grigio e c’è una nebbia greve, appoggiata su qualsiasi cosa. È un paesaggio strano, è la Cina, e lo so con certezza anche se non ho punti di riferimento che lo confermino.E poi eccola che arriva, una feluca scivola silenziosa sull’acqua e si accosta alla barca. Un cinese magro, pallido e veloce come una gazzella si insinua nel pozzetto e scende sotto coperta. Ha un enorme cappello a cono che gli copre il volto. Siamo tutti di sotto e lo vedo mentre si avvicina ai miei amici e comincia a fissarli negli occhi, uno ad uno, senza dire una parola, senza un rumore. E uno ad uno, senza una parola e senza un rumore cominciano a ritirarsi nelle loro cuccette con gesti soporiferi e lì, si addormentano. Questo esserino senza volto sta plagiando tutti e non voglio pensare a quale potrebbe essere il suo piano. Ma non ho tempo per queste cose. Devo restare concentrata, non devo dormire, sono l’unica rimasta sveglia e lui sta puntando su di me i suoi occhietti neri, stretti, come crepe in un muro.
Mi rendo conto che sto indietreggiando lentamente verso la cabina di prua e una volta lì, mi stendo e non posso farci assolutamente niente. Il cinese allunga un braccio odioso dentro la cabina e lo vedo prendere la mia borsa, dove ci sono tutti gli oggetti a  cui tengo di più. Mi hanno ipnotizzata e derubata, al centro di quello che dovrebbe essere il mio mondo, il mio altrove migliore. Però alla fine è così faticoso stare qui a preoccuparsi e rimpiangere, la mia mente ha sonno, le mie braccia hanno sonno.Cosa importa poi di ciò che accade là fuori,se posso chiudere gli occhi e riposare.


Dreamed by: Monsters

lunedì 14 marzo 2011

La nave volante.

Torno in Asia. Torno a immergermi in quei cunicoli di odori, sapori, colori, dove spero ancora di trovare quella parte di me che si è perduta chissà dove. In una buia città orientale, fra take away dalle insegne al neon che emanano odori di ogni tipo, sotto un cielo che non si vede perché coperto da ogni sorta di infrastruttura metallica, in mezzo a una fiumana di gente altrettanto insipida, trovo il mio uomo: un tipetto losco, piccolino, dall'aria pericolosa, gli occhiali scuri e l'impermeabile neutro.
Entriamo in uno di questi take away e ordiniamo un'insalata con i gamberi. E' talmente grande che non riesco a finire di mangiarla. Anzi, non riesco neanche a tenerla nel piatto, e devo andare a raccattare le foglie con le bacchette per tutto il tavolo. Forse è così grande perché la proposta che ha da farmi è importante: un'esperienza unica. Un viaggio in nave. Per ritrovare me stessa, dice. Vedrai che ti divertirai.
Perché no, dico io. Il mare mi farà bene.
E così, col mio zainetto, seguo l'uomo fino al molo, dove trovo il mio battello e mi imbarco senza pensarci su.
E' bellissimo, con rifiniture curate e l'aspetto tipico di una nave da marinai. Il legno lucido e l'odore del sale.
Raggiungo la mia cabina, che condivido con un'altra ragazza: è regale, imponente, comoda e invitante (la cabina, non la ragazza). Esauste, ci appisoliamo sul letto, sciogliendo le nostre coscienze nei riflussi morbidi delle onde sotto di noi.
Dormo tantissimo, dormo fino a perdere il momento della partenza; e quando ci svegliamo, mi affaccio all'oblò della stanza per capire dove sono. Invano. L'oblò che dovrebbe aprirsi sui flutti mostra invece una scogliera lontana lontana.
Che succede? - chiedo alla mia roommate.
Benvenuta sulla nave volante, - mi risponde lei, felice -  vai di sopra a scoprire quali sorprese ti attendono qui sopra.
Salgo le scale e torno sul ponte: stiamo volando. La nave è ancorata metri e metri sopra una baia sperduta. Il panorama è bellissimo da quassù. Ma non faccio in tempo a essere felice di quello che ho trovato che si alza un vento fortissimo: la barca comincia a ondeggiare pericolosamente, e il ponte elegante della nave piratesca che avevo visto poco fa si trasforma in una gigantesco gommone di salvataggio, ai cui bordi ci aggrappiamo per non venire sbalzati fuori dalle potenti onde che arrivano fin qui.
E' maremoto, è dramma. Il vento si insinua ovunque, nei vestiti, nei capelli, nelle nostre voci che gridano ma si perdono nel nulla. E' notte, adesso. Non ci sono più scogli rassicuranti a ripararci dal vento e dalla tempesta. Siamo in mezzo al mare, navighiamo senza meta, sotto un cielo inclemente che ha già deciso i nostri destini.
In lontananza, una costa, un paesaggio verdeggiante, una giungla rigogliosa fitta di fiori mannari dai colori sgargianti, un paese di pescatori blu che forse non vedremo mai.
O forse, in un prossimo sogno.

Dreamed by: Co.

mercoledì 9 marzo 2011

Lo stagista motociclista.

E' giovane, determinato e vuole lavorare per me. Al colloquio per la selezione dello stagista mi ha fatto una buona impressione, certo. Ma non abbastanza. C'è qualcosa che manca. Non so cosa.
Ma non sono ancora convinta.
Forse se n'è accorto, e si gioca un'ulteriore carta per cercare di convincermi: la tessera di appartenenza a un noto gruppo di motociclisti.
Non è vero, dico io. Li conosco molto bene, e tu non ne fai parte.
Non è vero, dice lui. Guarda che è molto più di quel che pensi.
E così viene fuori che un noto gruppo di motociclisti, affermati professionisti e persone rispettabili, altro non è che una vera e propria organizzazione malavitosa, sul modello delle scimmie di Tyler Durden in Fight Club, con nuclei indipendenti ma attivi lungo tutta la penisola.
Vere e proprie cellule criminali che operano nell'ombra, al riparo dalle loro vite di successo, per smantellare il sistema dal suo interno.
Siamo circondati, penso., mentre il giovane aspirante stagista rimette la sua tessera al suo posto, nella tasca interna del giubbotto, proprio vicina al cuore.
Siamo fottuti, penso.
Però, lui, non lo prendo lo stesso.

Dreamed by: Co.

martedì 8 marzo 2011

Sara, di Diego.

Distolta dal sonno nel pieno della notte. Avvolta da una coperta di lana vecchia a scacchi nera e rossa c'è Sara, guance morbide e boccoli d'oro stropicciati dal sonno. Me la ritrovo tra le braccia. Resta nel bozzolo di quelle coperte, le stesse con le quali si scaldava nel letto piccolo di quella stanza. Mi ritrovo una bambolina muta tra le braccia, mi guarda e il suo sguardo smarrito in silenzio strilla "non capisco che succede ma capisco che ho paura".
La madre me l'ha messa tra le braccia, senza conoscermi. Sono sbucato in casa sua da un buco sul muro, l'ennesima granata piovuta dal cielo. Farci l'abitudine è impossibile. Maledetti, ci colpiscono la notte per mietere più vittime. Come se la soluzione fosse quella. Sara è muta, quel silenzio mi blocca, il pianto della madre impietrisce, ma non posso lasciarle così. So di avere fiato corto per questa gara ma inizio a correre lo stesso. Mi piego intorno a quel tesoro, sarò il suo scudo, con il busto, con la schiena, a tutti i costi, Sara, vedrà domani la luce del sole.
Fuori piove polvere, acciaio, schegge di ogni cosa. Il buio non aiuta a correre, a farci strada, il fardello pesa, ma la forza di volontà deve arrivare più lontano, oltre quella maledetta collina. Paradossalmente, in quel buio, l'unica cosa da non seguire sono quelle scie sottili luminose che accendono la notte come la strobo in un locale, traccianti, infami maledetti, sussurrano che sta arrivando qualcosa alle tue spalle o, in questo caso, da ogni direzione.
Sara non piange, non ride, respira forte, la sento sul petto e mi aiuta a non sentirmi distante dalla salvezza. La madre ci segue, dietro. Urla. Come tutti intorno.
Una granata fa un buco infinito a venti metri da noi, i proiettili sembrano scandire il ritmo di una canzone, l'inferno in mp3, senza nessun bisogno di cuffiette.
Troviamo uno spazio, sembra sicuro, stiamo per entrarci dentro, un nuovo tracciante ci passa vicino, ci manca, anche quello che porta con se, ma non perdona la madre. Presa, vola cinque metri lontano da noi. Adesso Sara ha solo me.
La guardo. Mi manca il respiro. Sento una botta sulla spalla.


"....Svegliati, che viene il tizio della caldaia, altrimenti non ti puoi fare la doccia..."

"...'giorno...."
(a mente)
Sara?....Sara....Bel nome...." 



Dreamed by: Diego
Il suo blog: http://inegoblog.blogspot.com/ 

giovedì 24 febbraio 2011

La cicatrice


Esterno notte. Ci sono alberi fitti e boscaglia e cespugli. Ci sono altre persone. Le intravedo appena, però le sento. Mi sfrecciano di fianco in respiri affannosi. Sono ombre frenetiche tra gli alberi, le sento sibilare e nascondersi. Stiamo tutti scappando da qualcosa. E io corro trascinandomi dietro un filo d'ansia sottile, mi impiglio nei rami, vado avanti e avanti e avanti e qualche volta guardo in su e tra le chiome folte degli alberi intravedo sprazzi di stelle immobili.
A un certo punto sono ferma. Non ce la faccio più. Sono piegata in avanti, con le mani sulle ginocchia e il respiro spezzato che mi esce dalla bocca in piccole nuvolette. Ma non è stata una buona idea. Quando sento un fruscìo dietro di me, ho appena il tempo di tirarmi su e voltarmi e qualcuno, di cui non conoscerò mai il volto, mi infila qualcosa nella pancia. Toh, guarda un po', è una mannaia. È proprio il pensiero che mi si formula nella testa. Ho la schiena contro un albero e la lama mi trapassa lo stomaco da parte a parte, conficcandosi nella corteccia dietro di me. Toh, guarda, sono incastrata, è il secondo pensiero mentre sento un fiume caldo di sangue scendermi lungo le gambe.
Poi c'è un ellissi. Sono viva, sto bene e conduco la mia vita normalmente.Parlo con la gente e non vedo l'ora di raccontare la mia avventura, descrivendola con dovizia di particolari truculenti, sentendomi la coraggiosa eroina di un film di Wes Craven. E così eccomi qui, che chiacchiero con due persone sconosciute e racconto e racconto finchè arriva il momento di mostrare la ferita e lasciarli tutti impietriti. Solo che quando sollevo la maglia la mia cicatrice è piccola e sottile, poco più di un taglietto, più innocua dell'appendicite, non rende onore al mio incidente. Che sfiga, mi hanno aperto lo stomaco come un maiale da macello e nessuno ci crederà.

Dreamed by: Monsters

La cattedrale.

Piazza. Selciato. Porfido. Un pavimento dello stesso colore del cielo, che non smette di pisciare pioggia. Non c'è riparo da questo rovescio inconsulto, come una diga crollata sotto ai colpi  di un martello invisibile.
In questo torrente impietoso, cerco qualcuno. Mi aveva dato appuntamento qui, dentro questa cattedrale.
Entro. Volte altissime e seminascoste dal buio, gargoyle minacciosi, rosoni cupi e spenti. I loro colori brillanti si sono spenti chissà quando, dopo chissà quale numero di temporali rabbiosi.
Ad un tratto, rumore di passi: un gruppetto di teenager in perfetta tenuta hip hop si mette a correre tra le navate, cercando di sfuggire al mio sguardo. Non è qui chi stavo cercando.
Torno fuori, al freddo. Aspetterò qui, sugli scalini grigi di un giorno grigio, stretta nel mio kway, sottile e misero riparo da un vento che forse finirà col portare via anche me.
Dreamed by: Co.

martedì 22 febbraio 2011

L'alieno Nerd, di X-Senefrega.

...Ma l’altra notte si son fatti rivedere. Mi trovo a casa con altre persone e all’improvviso gli alieni cercano di fare irruzione sparando sostanze liquide di cui ignoro gli effetti. Grazie ai miei riflessi riesco a schivarle e a scappare. 
L’alieno ha sembianze umane, è piuttosto sovrappeso e prende a rincorrermi. Corriamo per un breve tratto sotto casa in mezzo alla sterpaglia da marciapiede di un quartiere trasandato, tipo quello di mio cugino a Ostia Antica. In breve, poiché ho sempre avuto il fiato corto, nonostante il tentativo di divincolarmi, vengo braccato. 
Chiuse le vie di fuga, l’alieno, che sembra un po’ un nerd con la camicia a quadretti e gli occhiali in celluloide nera da secchione, mi dice di scrivere su una lavagna in inglese “People on earth are happy!” E io che nei sogni parlo un inglese perfetto con accento del Wessex gli rispondo “I can’t, because you don’t know what we got in our minds!”. Lui: “Yes, I do. We can read your thoughts, let’s try!” e mi incita a provare. 
Cerco di non pensare a nulla, ma poiché ho sempre le meningi intasate di pensieri mi scappa uno STRONZO! Evidentemente il traduttore inglese-alieno/alieno-italiano si inceppa e soddisfatto ribatte: “hai detto Coglione”. 
Io e i miei amici, che nel frattempo mi hanno raggiunto, scoppiamo in una risata fragorosa e beffandomi di lui gli faccio notare che, come volevasi dimostrare, ha sbagliato perché la parola era un'altra! 
E poi mi sono svegliato.

dreamed by: X-Senefrega.
Il suo blog: E chi se ne frega

L'astronave.

La terra è finita. Niente di nuovo, si sapeva da tempo. Solo che non tutti ci volevano credere.
Quindi i pochi che hanno creduto fin dall'inizio sono i pochi che sapevano come sarebbe andata.
Che sapevano che sarebbe successo oggi.
Io lo sapevo, come sarebbe andata. Io ho partecipato a tutti i preparativi. Quest'astronave è anche merito mio. Adesso si tratta solo di spingere i prescelti dentro e saltare su. Aspettando che la terra imploda, verso un futuro migliore. Un pianeta migliore.
Esseri umani di ogni specie si accatastano dentro l'astrobus per partire alla ricerca della sopravvivenza.
Ci sono proprio tutti. Tutti quelli che abbiamo scelto.
Tò, c'è anche Monsters. Meno male, una vita senza di lei mi sarebbe stata insopportabile.
Contatevi. Fate l'appello. Ci siete tutti? Ok. Saliamo. Salgo anche io. Chiudiamo il portellone. Partiamo. Via.
Dentro l'astrotram un odore di umanità varia, sudore e paura e eccitazione.
Noi che sapevamo siamo soddisfatti.
Guardo dall'oblò la mia terra sola, verde e azzurra. Non sembra un pianeta che sta per sparire.
Eppure tra poco accadrà l'irreparabile.
Meno male che mi sono salvata, dico a Monsters con un soffio.
E mentre guardo la mia terra lontana, mi squilla il cellulare.
E' mia madre. E' rimasta sulla terra. Con papà, con mio fratello. Mi mancherai, mi dice.
Non li potevo salvare. Non li potevo salvare ma adesso darei un rene per poterlo fare. Tento il tutto per tutto. Una nuova vita senza di loro non è possibile. Non ha senso.
Tornate indietro. Tornate indietro, urlo a gran voce. Ho dimenticato una cosa, una cosa importante. E mentre nessuno mi ascolta, un improvviso silenzio dall'altro capo del telefono, e un'esplosione sorda dall'altra parte dell'oblò.
E' finita. Non c'è più nulla. Un vuoto assordante mi riempie le orecchie e il cuore.
Non rimane che chiedersi come facciano i cellulari a prendere nell'iperspazio.

Dreamed by: Co.

sabato 19 febbraio 2011

I gatti ninja.

Incredibile: mentre i miei amici fanno figli, io sono ancora troppo impegnata a riprendermi dai postumi della serata precedente. Probabilmente la mia solitudine sottovuoto gli fa pena, e così non mancano di invitarmi a tutte le cene tra famigliole felici che organizzano tra di loro.
Questa poi è un eventone: è nato un altro pargolo. Lo guardo nella sua culla, tutto rugoso e rosso, fasciato in una copertina che rischia di soffocarlo, e mi fa persino un po' senso.
Mentre mi perdo in queste elucubrazioni, spariscono tutti. Così, puff. Mi volto e non ci sono più.
Così devo occuparmi io della creatura, che per il momento non è troppo laboriosa. Però c'è un però: e cioè questo condominio, dalla particolare conformazione priva di porte ma dotata di efficaci cancelletti da giardino a separare gli appartamenti , è infestata da gatti ninja.
Della specie più pericolosa, tra l'altro.
E puntuali come le tasse eccone arrivare due, neri come la notte, che si  infiltrano tra le stecche del cancellino, cominciando ad annusarsi intorno in cerca di vittime. Dando prova di grande coraggio mi nascondo in camera insieme al mostriciattolo finché non tornano i legittimi genitori.
Grazie a dio non tardano a tornare; posso uscire dalla camera, trionfante, col pupo in salvo.
Ma prima di tornare ad adorare questa divinità miniaturizzata, devo fare qualcosa per i gatti che si sono rintanati nell'ombra per non farsi beccare: gli copro le spalle e apro il cancellino.
Forza gatti, fuggite. Vi sto salvando la pelle.
Dopotutto mi sono sempre piaciuti più i gatti che i bambini.

Dreamed by: Co