mercoledì 28 marzo 2012

Lessico e nuvole, di Parco Cane.


Siamo in una stanza. 
Come in ogni stanza al mondo, ci sono sei lati: sopra sotto, destra sinistra, davanti dietro.
Noi due occupiamo due lati, il sotto, su cui ci troviamo e il sopra, a cui rivolgiamo l'occhio. Anzi, gli occhi, quattro, per essere precisi.
Degli altri lati, che sappiamo si trovano lì, da qualche parte, non ci interessa granché.
Per essere di nuovo precisi, anche se troppa precisione ci annoia, tanto quanto uno scoiattolo che mastica, di quegli altri lati non ci frega niente e forse neanche ci sono.
Sotto è tutto normale, nel senso che chissà com'è, quel sotto lì. Noi di sicuro non lo vediamo.
Come potremmo, del resto, visto che guardiamo in su?
Veniamo al su, quindi.
Su, sul soffitto, è pieno di nuvole.
Bianche e dense, scure e grasse, perfino unte. Sta per piovere, ma non piove.
E non ci sembra strano affatto. Noi non abbiamo mai visto piovere pioggia in una stanza.
Abbiamo visto piovere piatti, calzettoni, mutande.
Abbiamo visto piovere ceffoni e insulti, sorrisi e occhiatacce.
Ma pioggia mai.
Decidiamo di agire e iniziamo a saltare stlie canguri per prendere le nuvole e strizzarle e far piovere.
Di botto ci rendiamo conto di essere non essere soli.
E succede solo ora, anche se abbiamo sognato al plurale fin dall'inizio.
Ci vediamo senza guardarci e sappiamo che siamo in due.
Io e un bastardo.
Ma siccome io sono un bastardo, anche il bastardo sono io.
Siamo due bastardi che provano a far piovere in una stanza, una stanza piena di nuvole.
Ci dedichiamo un sorriso sghembo e speculare, che vediamo con la coda dell'occhio, speculare pure lui.
Le nuvole si discostano, lasciano cielo a un bel senso di soddisfazione.
Piova pure finché vuole, saranno sempre solo gocce.

Dreamed by: Parco Cane.

venerdì 23 marzo 2012

L'ospedale storto.

Questo è un ospedale, e questo è un camice. Bianco, di quelli classici da operazione chirurgica. A forma di buccia di patata, ma senza la patata. Quelli col culo scoperto, per intenderci.
Questo è un letto di ospedale e questi sono corridoi. Bui e lugubri, percorsi da una luce velata, di quelle luci da film horror, quelle che segui per ore cercando di arrivare alla fonte senza mai arrivarci.
Questi sono i miei piedi e questo è il rumore dei miei passi insicuri nel buio, mentre sorpasso una corsia dopo l'altra, un malato dopo l'altro. Qui soffrono tutti, aggrovigliati nel loro dolore silenzioso e interno, contorti sulle brande coperte da lenzuola verdi, ma sono tutti vestiti come se fossero dei visitatori.
E io, che forse ho appena subito un'operazione, sto da dio.
Sono più piccola degli altri, sono più malata degli altri, sono più inconsistente degli altri. Eppure sto bene.
Forse sono io il fantasma che ho paura abiti questi corridoi inquietanti. Non so.
Vorrei pensarci, vorrei capire: magari potrei provare a parlarne con uno di questi degenti. Chiedergli come va, provare a toccarlo per vedere se gli passo attraverso oppure no, ma mentre sto meditando su questa possibilità succede qualcosa di assurdo: l'ospedale comincia a inclinarsi su un lato, si, sta lentamente scivolando su sé stesso.
In un attimo il panico si impadronisce di tutto l'ospedale: i malati si rinchiudono all'interno delle loro stanze, spaventati, mentre dal nulla spuntano sciami di infermiere che corrono senza direzione da un capo all'altro dello stabile.
Io mantengo la mia calma zen e mi dirigo con lo stesso passo quieto e malfermo verso la sala refezione.
Quella sul lato più inclinato. Cammino ormai con un angolo di 45° sull'universo, quando raggiungo la mia meta: una stanza piena di tavoli su cui inciampano persone in fuga da tutte le parti.
Al tavolo più nascosto siedono tre persone: un'infermiera dai capelli rossi e due inservienti. Calmi come me.
L'ospedale ha smesso di inclinarsi, così posso fare il mio tentativo antifantasmagorico: parlo con loro.
"Mangiamo insieme?" - chiedo.
"Abbiamo tenuto un posto giusto per te" - mi rispondono tirando fuori dall'oscurità tanti cestini per il pranzo. Caso vuole che io abbia con me un pezzo di pane e due fette di prosciutto.
E così, in quest'ospedale mezzo vuoto e tutto storto, nel buio dove risplendono solo i denti bianchissimi dell'infermiera rossa, mi siedo al tavolo con questi demoni dell'oscurità a mangiare in silenzio.
Nel mio camice bianco.

Speriamo solo che non mi guardino il culo.

Dreamed by: Co.

Buongiorno, Signor Presidente.

                                                                               Buongiorno, Signor Presidente. 
Mi guardo intorno. In questa stanza, a parte il tizio pelato che ha appena parlato, ci sono solo io. 
Il pelato, mano sulla maniglia della porta e abito doppio petto che neanche a un matrimonio reale, mi guarda con un misto di timore e fiducia, con quell'occhio un po' luccicoso che hanno i cani quando intuiscono che forse è il momento della passeggiata.
Non si muove di lì. Io nemmeno. 
'Giorno, rispondo. Ci provo, magari si accontenta, in mancanza del Presidente.
Che il Presidente sono io, lo capisco subito dopo. Quando vedo il sorriso pieno di gratitudine di Pelato e quando guardo meglio la stanza in cui sono. 
È il Quirinale, non ci sono dubbi. Quindi non sono neanche un Presidente a caso.
Mi guardo in uno specchio. Sono io, stessa faccia, stesse Converse, stessa maglia con buco di tarma. Non posso fare il Presidente della Repubblica così. 
Ma Pelato non sembra avere nessun problema a riguardo. Mi gira intorno, mi fa firmare fogli, mi chiede cosa deve dire e cosa deve fare. 
E se non ha problemi lui, perché dovrei averne io. Solo che io non ho la più vaga idea di come si faccia il capo dello Stato.
Poi mi chiedo se lui veda me o un signore con rispettabili rughe e fazzoletto nel taschino.
Non lo saprò mai, mi tocca improvvisare, e provare almeno a contenere il danno. Per esempio, potrei provare ad adeguare il linguaggio. Un Presidente che comincia una seduta in Parlamento accendendosi una paglia e dicendo "che sbattimento", potrebbe far alzare più di un sopracciglio. 
Per non parlare delle telefonate. Sicuro come la morte che mi chiama Mario Monti. E lì non me la cavo chiedendogli come va lo spread. 
Che sbattimento, ragazzi. 
Sento l'ansia che si arrampica su per la spina dorsale e mi appiccica la maglietta tarlata addosso. O forse la camicia di sartoria. Dipende dai punti di vista.
Ma poi guardo Pelato, la sua faccia carica di aspettative e velata apprensione. C'è la conferenza stampa, mi dice.
E io non posso deludere quest'uomo. 
Va bene, andiamo. Ho giusto un paio di cose da dire a questo Paese. 

Dreamed by: Monsters

giovedì 22 marzo 2012

Scimmia, di Parco Cane.



Me ne sto di fronte all'ascensore. Aspetto che arrivi. 
Arriva.
Dentro, dietro le porte d'acciaio che si aprono, c'è una scimmietta.
E' magra come se avesse la scimmia.
Te l'immagini, una scimmia con la scimmia?
E' secca come un torsolo di mela, più che magra. E dello stesso colore di quel torsolo, ma dopo due ore di ossidazione al sole.
Insomma, non è che sia proprio una bella scimmia. Del resto, quando mai lo è, bestia d'una bestia?
Ha un proprietario, ma quell'essere inutile non si palesa. Forse ha la scimmia pure lui, ma non quella che vedo io, un'altra.
Cioè, io non lo vedo, ma forse è solo uno che manco si vede anche se lo si guarda.
La scimmietta, che chiameremo Ginetta, mi sorride vampira.
E ce l'ha con me.
Ginetta mi tende la manina della zampina, ma tutti questi diminutivi e vezzeggiativi mi hanno rotto e la manina se la tenga pure, io la mia non gliela do.
Quella se ne frega del mio rifiuto e cerca di saltarmi in braccio, anzi, di baciarmi sul collo.
Mi ritraggo sudato. le porte dell'ascensore si chiudono e scappo come un leprotto inseguito -guarda caso- da una scimmia succhiasangue.
Corro, mi volto, corro, mi volto, corro, mi volto e mi vedo inseguito da mia cugina truccata come un ultrans, in altre parole: una specie di ragioniere brasiliano con le tette all'altezza delle spalle, che fa il tifo durante una partita di calcio al Maracanà.
Ha un'enorme banana gonfiabile in mano e una bandiera di una squadra carioca per vestito.
Santodio, vorrei chiedere aiuto, ma le parole non escono, solo fiato spento.
Purtroppo, corro voltato e vado a sbattere contro un palo della luce spenta.
Spento il fiato, spenta la luce, è accesa solo la sveglia. 
Già, la capocciata l'ho presa per davvero, contro la trave della mansarda dove sta la mia stanza da letto, reagendo alla sveglia. 
Che, senza cuore, ma con le batterie in ordine, mi richiama al mio, di ordine.
La spengo con un rutto (è una sveglia sensibile alla voce, oggi le fanno così). E torno a sognare. La prossima volta vi dico cosa.

Dreamed by: Parco Cane.

La pelle esaurita.

Ora, il principio che differenzia il dormire dal morire è il fatto che, se dormi, poi ti svegli. E sei uguale a prima. Se muori non si sa. Però se dormi ti svegli e sei uguale, ecco.
E invece io mi sveglio e non è proprio tutto uguale. Anzi.
Sono tutta coperta da tatuaggi.
Il che non sarebbe un problema se, uno, non ci fosse mia madre  guardarmi mentre mi rendo conto di tutto questo e soprattutto, ovvero due, i tatuaggi non fossero orribili.
Ho un cuore gigantesco che mi copre la schiena.
Le braccia coperte di tatuaggi che si sovrappongono l'uno all'altro, come in una frenesia d'inchiostro.
E più mi guardo più ne spuntano.
Tò, un geranio sul collo.
Tò, un bracciale sul braccio.
Una corona sul bicipite.
Un diamante sul polso.
Più mi guardo e più ne ho.
Il tatuatore dice che sono delle prove, scompariranno a breve.
Ma qui questo scempio si autorigenera, in un crescente orrore di colori fluo e vaselina lucida.
Non scompaiono neanche se mi vesto.
Mi sono svegliata, si.
Ma forse preferirei essere morta.

Dreamed by: Co.