Siamo diventati grandi, e qui non ci stiamo più tutti.
Traslochiamo in una casa più grande e più bella. Tutti insieme.
Una casa per noi piccoli mostri.
Non preoccupatevi, l'indirizzo è facile e potete continuare a mandare i vostri alla solita posta.
Vi aspettiamo su
http://monstersandco.wordpress.com
E vi leggiamo su
monstersendco@gmail.com
RAAAAAAH!!!
(Siete spaventati? No? Bene).
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Qualcuno mi può spiegare perché ogni volta che chiudo gli occhi mi ritrovo catapultata in una notte buia senza speranza?
No, perché mi sono un po' stancata di camminare per questi marciapiedi anonimi, di una qualunque città nordeuropea che non ho mai visitato, facendo riecheggiare i miei passi nel buio infinito.
Almeno questa volta non sono sola, ecco. Almeno ho qualcuno che mi tiene per mano. Almeno ho qualcuno che scaccia via la paura.
E poi. Qualcuno mi può spiegare perché, all'improvviso, incontriamo Aphex Twin e Moderat all'angolo di questa strada senza inizio né fine? E perché il mio accompagnatore li saluta come se fossero amici di lunga data, con grandi pacche sulle spalle e e reciproci complimenti, tipo, man, sei il numero uno, bella lì?
Ma soprattutto. Qualcuno mi può spiegare perché, nel bel mezzo di questa simpatica rimpatriata tra musicisti, sbuca una macchina a tutta velocità dalla notte più nera, sbanda, e mi centra in pieno, uccidendomi?
No, perché questa non ci voleva.
Al volante, una vecchia conoscenza del liceo. E io, diventata spirito, mi sento in dovere di infestarla. Cioè, io non voglio proprio infestarla, ma almeno vorrei porle le tre domande di cui sopra. Più una: perché proprio adesso, perché tirarmi sotto proprio quando ho trovato un'anima pia che mi tiene la mano nell'oscurità?
A me piaceva. Quella mano, non l'oscurità.
Resta il fatto che neanche l'assassina al volante ha le risposte che cerco. Ad ogni punto interrogativo fa spallucce. E quando le dico piangendo che ora quella mano non posso più toccarla, mi dice: "Ma guarda, anche quella mano si sente sola senza di te."
Io guardo quella mano. Sola.
E attaccata a quella mano, un uomo incazzato che guarda il mio corpo esanime sotto all'auto assassina.
Chiaccherando amabilmente con i suoi electrofriends.
Non mi resta che sparire fantomaticamente, lasciando su questa terra il mio corpo vuoto e la mano tanto amata.
Ma non senza una musica di sottofondo indimenticabile.
Che ricorda in modo preoccupante Windowlicker.
Dreamed by: Co.
Ricordo questo pavimento. Le sue piastrelle in cotto, sempre all'ombra, troppo fredde se calpestate a piedi nudi.
Ricordo il rumore di queste tende mentre le scosto delicatamente per entrare dalla porta, facendo entrare un sottile fascio di luce. Quella luce bianca e polverosa del primo pomeriggio, in agosto, quella luce da cui non puoi nasconderti.
Ricordo questa sensazione di freddo penetrante al contatto con il bracciolo del divano. Il metallo gelido nascosto sotto un materasso morbido su cui lanciarmi guardando mia madre che cucina. E il suo rumore di posate e pentole e lo sfrigolio dell'olio su cui rosolano le patatine fritte. Ricordo che è giovedì. Perchè il giovedì si preparano le patatine fritte, se siamo stati bravi.
Ricordo quest'angolo di buio in corridoio, quello dove non vogliamo mai passare per paura che un orribile e gigantesco mostro ci aggredisca in un metro quadro di oscurità mentre corriamo in camera lanciandoci sui nostri lettini, costretti a fare un pisolino dopo il pranzo e prima del malefico bombolone alla crema. Mangiati mille, tra proteste e strepiti, mai finito neanche uno. Forse è per questo che ancora oggi non riesco a mangiare dolci fritti.
Ricordo questa sagoma, quella di mio fratello in controluce. Le sue gambe corte, con le ginocchia rivolte all'indentro, e i suoi calzettini troppo larghi e cadenti sulle caviglie. Anche in controluce, posso immaginarlo sorridere con quegli occhi luminosi e il ciuccio sempre in bocca, sopra ai suoi denti piccoli e bianchissimi.
Ricordo questo rumore, quello della bicicletta di papà che arriva traballando sul selciato di ciottoli, fischiettando. Qualcosa dei Black Sabbath o dei Deep Purple, qualcosa che viene da un mondo lontano e malinconico, ma che tra le sue labbra ha un retrogusto così soave e bellissimo. Ricordo il numero delle sue lentiggini sulle sue gambe, le uniche cose che da quest'altezza riesco a vedere. La sua pelle bianca e lattiginosa e i piedi nodosi nelle ciabatte da mare.
Ricordo questa casa, quella dei miei genitori al mare, dove passavamo ogni estate senza pensieri.
Ricordo questo senso di beata spensieratezza. Ricordo questa leggerezza nel cuore e nei piedi.
Ricordo ogni dettaglio di questo angolo di cielo dove ho lasciato la mia innocenza. Chiedendomi cosa sarebbe stato di me. E certo non potevo immaginare nulla di ciò che sono oggi.
E ora ricordo perchè, almeno in sogno, ho pensato di venire a passare un po' di tempo proprio qui.
Nella mia innocenza perduta.
Dreamed by: Co.
Se tu me l'avessi detto, che questa strada era storta e non dritta.
Se tu me l'avessi detto, che si sarebbe alzata da terra come un serpente che si sveglia, aprendo le sue spire in mille e mille pieghe e curve sinuose, imprevedibili e senza un ordine vero.
Se tu me l'avessi detto, mi sarei messa gli anfibi e non le zeppe di Vivienne Westwood.
E invece sono qui, a questo capo della strada, e ti guardo che mi guardi dall'altro e con quegli occhi neri come l'universo mi chiedi di raggiungerti. Di corsa.
E io corro e corro e corro e corro e non ti immagini neanche quanto corro.
Corro così tanto che se mi facessero una foto adesso finirei su The Sartorialist, con la pochette in pitone fucsia e la minishirt paillettata e i capelli perfetti controvento grazie a un badile di cera. Corro così tanto che per me dovrebbero inventare una nuova categoria di servizio di moda, tipo, non so, "Paura e sudore a Las Vegas" o "Sweaty is the New Black".
Io corro e corro sui miei tacchi alti ma non vado da nessuna parte.
Io corro e corro ma queste spire si allungano sempre più, e sul dorso di questo serpente di cemento si snodano persone che mi bloccano, vogliono toccarmi, vogliono fotografarmi, vogliono fermarmi, e io mi dimeno in questo groviglio di rami pungenti dalle sembianze umane strappandomi i vestiti ma senza raggiungerti mai.
Io corro e corro e i tuoi occhi sono sempre più grandi, sono grandi come il cielo e bui come la notte, e io lo so che tu mi guardi e mi aspetti e l'unica cosa che posso dirti è:
Ancora 5 minuti, non sono pronta. Mi si sono smagliate le calze.
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giovedì 7 marzo 2013
Il trasloco.
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domenica 27 gennaio 2013
Ascensore per l’inconscio.
Una finestra socchiusa
contro un cielo pieno di stelle.
Al di là della finestra un campanile di
pietra, in un paese senza nome e senza tempo. Al di qua della finestra una
camera d’albergo.
Al centro, io. Ovunque,
silenzio.
Anzi no, un vociare sottile di gente per strada.
Mi affaccio, c’è un
uomo che tira un carretto pieno di frutta, una donna con una veste lunga e un
grembiule. Un capannello di bambini, sul marciapiedi, raccolto attorno al giro
di una trottola. Bambini che a quanto pare non hanno mai visto una playstation.
Dove sono i telefoni e le auto. Che fine hanno fatto le insegne al neon.
Dunque. O sono finita in una comunità hamish, oppure ho fatto un viaggio nel
tempo.
Mi sembrano entrambe ipotesi valide, l’unica è andare a verificare. Per
fortuna nessuno mi obbliga a vestirmi come Troisi in Non ci resta che piangere
e in una frazione di secondo sono uscita dalla mia camera e scesa in strada.
Devo svelare questo mistero. Sono curiosa, sono motivata, sono l’eroina
surreale di un racconto alla De Maupassant, nessuno mi impedirà di scoprire la
verità.
Però mi scappa la pipì. Mi
scappa davvero.
Come non detto, bisogna che
torni subito in camera.
Entro in albergo e prendo l’ascensore.
Pare che gli hamish non guidino auto e non guardino la tv, però non abbiano
niente contro gli ascensori. O meglio, contro gli ascensori impazziti. Perché
la cosa migliore che può succederti mentre te la stai facendo addosso e
incappare in un ascensore che decide di portarti ovunque tranne che al tuo
piano.
Me li fa fare tutti: il piano con la moquette verde, quello con la
moquette azzurra, il piano senza moquette e la moquette senza piano.
Poi,
finalmente, arrivo di nuovo al piano sbagliato. Lo scantinato.
Esco lo stesso,
troverò un bagno qui. Lo spazio che ho davanti è grande come un hangar, semi
buio e pieno di polvere, di mobili coperti da lenzuola, di scatole e sedie
impilate una sull’altra.
Mi guardo intorno, ma niente bagno. Allora devo
tornare su.
Ma c’è gente, tanta gente che aspetta l’ascensore.
Perfetto. Ci
mancava solo il raduno degli Amici degli Scantinati.
Mentre aspetto, mi guardo
intorno e un po’ più in là, tra
attaccapanni e tavoli inutili, vedo una pedana illuminata e un palo. E
soprattutto due ragazze bellissime, biondissime e nudissime che ballano la lap
dance più sexy che abbia mai visto.
Questa non è roba hamish. E
neanche roba d’altri tempi.
A questo punto la mia voce
fuori campo mi rivolge la parola.
-
Dovresti aver
capito dove ti trovi.
- No.
- Sei in un
sotterraneo. Sei sotto la superficie. E sei in un sogno. Quindi…
- Non ci arrivo.
Mi serve un bagno.
- Sei nel tuo
inconscio, stupida.
Giusto. Come ho fatto a non
pensarci prima.
Adesso non mi resta che fare
i conti con una verità piuttosto sconcertante.
Il mio inconscio è un club
privè clandestino.
E io non so ballare.
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martedì 22 gennaio 2013
Il downgrade non richiesto.
E basta co sti cazzo di smartphone.
E piripì e piripì sempre a dirti cosa devi fare, chi devi vedere, chi devi sentire, cosa devi guardare.
Adesso veramente basta. Ne ho abbastanza.
Io non voglio più essere raggiungibile in qualsiasi momento. Non voglio mandare sms gratuiti a tutti i miei amici. Non voglio postare foto su Facebook dal mio dispositivo. Non voglio controllare le mail anche in vacanza.
Entro nel primo negozio di telefonini e propongo uno scambio equo: il mio iPhone per questo bel Nokia 3310. Scambio la tecnologia per la mia libertà. Il commesso è incredulo e non ci vuole molto a convincerlo ad accettare.
Esco dal negozio libera e felice, lanciando il mio mattone parlante contro al cemento godendo della sua indistruttibilità e del suo schermo monocromatico.
E poi la tragedia.
Mi rendo conto in un lampo di cosa ho perso per sempre. L'entertainment continuo. Non posso più giocare a Ruzzle.
Torno indietro ma il commesso ha già chiuso le serrande e mi ha lasciato in braghe di Nokia.
Chiamalo scemo.
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E piripì e piripì sempre a dirti cosa devi fare, chi devi vedere, chi devi sentire, cosa devi guardare.
Adesso veramente basta. Ne ho abbastanza.
Io non voglio più essere raggiungibile in qualsiasi momento. Non voglio mandare sms gratuiti a tutti i miei amici. Non voglio postare foto su Facebook dal mio dispositivo. Non voglio controllare le mail anche in vacanza.
Entro nel primo negozio di telefonini e propongo uno scambio equo: il mio iPhone per questo bel Nokia 3310. Scambio la tecnologia per la mia libertà. Il commesso è incredulo e non ci vuole molto a convincerlo ad accettare.
Esco dal negozio libera e felice, lanciando il mio mattone parlante contro al cemento godendo della sua indistruttibilità e del suo schermo monocromatico.
E poi la tragedia.
Mi rendo conto in un lampo di cosa ho perso per sempre. L'entertainment continuo. Non posso più giocare a Ruzzle.
Torno indietro ma il commesso ha già chiuso le serrande e mi ha lasciato in braghe di Nokia.
Chiamalo scemo.
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venerdì 11 gennaio 2013
Riunione di famiglia.
Sei tu, lì in fondo, dietro la donna con il cappotto peloso.
Sei tu, non c’è dubbio.
È tanto che non ci vediamo.
Che fine hanno fatto i tuoi occhiali.
Sono contenta di vederti, non me l’aspettavo.
No, non è che mi sia dimenticata. È che i giorni si
rincorrono impazziti, si ammucchiano uno sopra l’altro alla rinfusa, come la
terra scavata dai cani.
Non ho voglia dire le solite cose. Che se ci fossi stato tu.
Tanto non è vero.
Quando c’eri era uguale. Non eri una guida, non eri un
amico, non uno con cui mi confidavo.
Però eri buono, eri allegro, eri Famiglia. La parte migliore.
Non ti penso tutti i giorni, e non sono mai venuta a
trovarti. Ma è bello vederti.
Metro verde. Fermata Moscova. Chi l’avrebbe mai detto che
t’avrei incontrato qui.
La salute va bene, il lavoro ce l’ho.
Ma come vedi, la guerra non è ancora finita.
È che pensavo che sarebbe stato diverso, che tutto, col
tempo, si sarebbe incastrato alla perfezione.
E invece, guarda qua, è tutto fermo.
Questo vagone, per esempio. Da quant’è che siamo qui sotto?
La donna col cappotto peloso pensa che stia parlando con
lei.
Ecco avvicinati, così possiamo capirci meglio.
Non ricordo più bene la tua faccia, mi dispiace.
Ricordo a malapena i tuoi baffi.
Dicono che succede così, dopo un po’.
Grazie per questo abbraccio e per avermi detto che andrà
tutto bene.
È la frase di circostanza più piena e vera e nuova che abbia
mai sentito.
Avevo voglia di questo. Di clichè lacrimosi. Di finali
hollywoodiani. Che male c’è.
Sono così stanca, zio, ora vorrei tanto dormire.
Mi dici che quando si dorme in un sogno, si dorme al
quadrato.
Solo uno come te può rendere così poetica la
matematica.
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lunedì 7 gennaio 2013
Il vedovo poco allegro.
Qualcuno mi può spiegare perché ogni volta che chiudo gli occhi mi ritrovo catapultata in una notte buia senza speranza?
No, perché mi sono un po' stancata di camminare per questi marciapiedi anonimi, di una qualunque città nordeuropea che non ho mai visitato, facendo riecheggiare i miei passi nel buio infinito.
Almeno questa volta non sono sola, ecco. Almeno ho qualcuno che mi tiene per mano. Almeno ho qualcuno che scaccia via la paura.
E poi. Qualcuno mi può spiegare perché, all'improvviso, incontriamo Aphex Twin e Moderat all'angolo di questa strada senza inizio né fine? E perché il mio accompagnatore li saluta come se fossero amici di lunga data, con grandi pacche sulle spalle e e reciproci complimenti, tipo, man, sei il numero uno, bella lì?
Ma soprattutto. Qualcuno mi può spiegare perché, nel bel mezzo di questa simpatica rimpatriata tra musicisti, sbuca una macchina a tutta velocità dalla notte più nera, sbanda, e mi centra in pieno, uccidendomi?
No, perché questa non ci voleva.
Al volante, una vecchia conoscenza del liceo. E io, diventata spirito, mi sento in dovere di infestarla. Cioè, io non voglio proprio infestarla, ma almeno vorrei porle le tre domande di cui sopra. Più una: perché proprio adesso, perché tirarmi sotto proprio quando ho trovato un'anima pia che mi tiene la mano nell'oscurità?
A me piaceva. Quella mano, non l'oscurità.
Resta il fatto che neanche l'assassina al volante ha le risposte che cerco. Ad ogni punto interrogativo fa spallucce. E quando le dico piangendo che ora quella mano non posso più toccarla, mi dice: "Ma guarda, anche quella mano si sente sola senza di te."
Io guardo quella mano. Sola.
E attaccata a quella mano, un uomo incazzato che guarda il mio corpo esanime sotto all'auto assassina.
Chiaccherando amabilmente con i suoi electrofriends.
Non mi resta che sparire fantomaticamente, lasciando su questa terra il mio corpo vuoto e la mano tanto amata.
Ma non senza una musica di sottofondo indimenticabile.
Che ricorda in modo preoccupante Windowlicker.
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giovedì 20 dicembre 2012
L'innocenza perduta.
Ricordo questo pavimento. Le sue piastrelle in cotto, sempre all'ombra, troppo fredde se calpestate a piedi nudi.
Ricordo il rumore di queste tende mentre le scosto delicatamente per entrare dalla porta, facendo entrare un sottile fascio di luce. Quella luce bianca e polverosa del primo pomeriggio, in agosto, quella luce da cui non puoi nasconderti.
Ricordo questa sensazione di freddo penetrante al contatto con il bracciolo del divano. Il metallo gelido nascosto sotto un materasso morbido su cui lanciarmi guardando mia madre che cucina. E il suo rumore di posate e pentole e lo sfrigolio dell'olio su cui rosolano le patatine fritte. Ricordo che è giovedì. Perchè il giovedì si preparano le patatine fritte, se siamo stati bravi.
Ricordo quest'angolo di buio in corridoio, quello dove non vogliamo mai passare per paura che un orribile e gigantesco mostro ci aggredisca in un metro quadro di oscurità mentre corriamo in camera lanciandoci sui nostri lettini, costretti a fare un pisolino dopo il pranzo e prima del malefico bombolone alla crema. Mangiati mille, tra proteste e strepiti, mai finito neanche uno. Forse è per questo che ancora oggi non riesco a mangiare dolci fritti.
Ricordo questa sagoma, quella di mio fratello in controluce. Le sue gambe corte, con le ginocchia rivolte all'indentro, e i suoi calzettini troppo larghi e cadenti sulle caviglie. Anche in controluce, posso immaginarlo sorridere con quegli occhi luminosi e il ciuccio sempre in bocca, sopra ai suoi denti piccoli e bianchissimi.
Ricordo questo rumore, quello della bicicletta di papà che arriva traballando sul selciato di ciottoli, fischiettando. Qualcosa dei Black Sabbath o dei Deep Purple, qualcosa che viene da un mondo lontano e malinconico, ma che tra le sue labbra ha un retrogusto così soave e bellissimo. Ricordo il numero delle sue lentiggini sulle sue gambe, le uniche cose che da quest'altezza riesco a vedere. La sua pelle bianca e lattiginosa e i piedi nodosi nelle ciabatte da mare.
Ricordo questa casa, quella dei miei genitori al mare, dove passavamo ogni estate senza pensieri.
Ricordo questo senso di beata spensieratezza. Ricordo questa leggerezza nel cuore e nei piedi.
Ricordo ogni dettaglio di questo angolo di cielo dove ho lasciato la mia innocenza. Chiedendomi cosa sarebbe stato di me. E certo non potevo immaginare nulla di ciò che sono oggi.
E ora ricordo perchè, almeno in sogno, ho pensato di venire a passare un po' di tempo proprio qui.
Nella mia innocenza perduta.
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lunedì 17 dicembre 2012
La corsa in passerella.
Se tu me l'avessi detto, che questa strada era storta e non dritta.
Se tu me l'avessi detto, che si sarebbe alzata da terra come un serpente che si sveglia, aprendo le sue spire in mille e mille pieghe e curve sinuose, imprevedibili e senza un ordine vero.
Se tu me l'avessi detto, mi sarei messa gli anfibi e non le zeppe di Vivienne Westwood.
E invece sono qui, a questo capo della strada, e ti guardo che mi guardi dall'altro e con quegli occhi neri come l'universo mi chiedi di raggiungerti. Di corsa.
E io corro e corro e corro e corro e non ti immagini neanche quanto corro.
Corro così tanto che se mi facessero una foto adesso finirei su The Sartorialist, con la pochette in pitone fucsia e la minishirt paillettata e i capelli perfetti controvento grazie a un badile di cera. Corro così tanto che per me dovrebbero inventare una nuova categoria di servizio di moda, tipo, non so, "Paura e sudore a Las Vegas" o "Sweaty is the New Black".
Io corro e corro sui miei tacchi alti ma non vado da nessuna parte.
Io corro e corro ma queste spire si allungano sempre più, e sul dorso di questo serpente di cemento si snodano persone che mi bloccano, vogliono toccarmi, vogliono fotografarmi, vogliono fermarmi, e io mi dimeno in questo groviglio di rami pungenti dalle sembianze umane strappandomi i vestiti ma senza raggiungerti mai.
Io corro e corro e i tuoi occhi sono sempre più grandi, sono grandi come il cielo e bui come la notte, e io lo so che tu mi guardi e mi aspetti e l'unica cosa che posso dirti è:
Ancora 5 minuti, non sono pronta. Mi si sono smagliate le calze.
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