lunedì 21 marzo 2011

L'evacuazione improvvisa.

Ecco, ci siamo. Suonano le sirene. E' allarme, è panico.
Dobbiamo evacuare il palazzo, la zona, la città. Nessuno sa perché ma tutti se lo aspettavano. Fiumi di gente cominciano a correre fuori dai portoni, verso la salvezza, verso cosa non si sa.
Io no, io non sono pronta. Che succede, qualcuno mi dica qualcosa. Ecco, ecco, qualcuno mi dice di fare una valigia e cominciare a correre. Va bene, va bene. Faccio la valigia.
Apro una vecchia valigia consunta dal tempo e dai chilometri e comincio meticolosamente a riempirla, mentre una dopo l'altra sento riecheggiare le esplosioni. Magliette. Boom. Biancheria. Boom. Una giacca pesante, non si sa mai, soprattutto se non sai dove stai andando. Boom. Libri, potrei annoiarmi. Boom. Penne. Qualcuno dovrà pur scrivere. Boom. L'impalcatura di ferro sottile del mio letto a castello trema mentre sono indecisa sul numero di jeans da portare.
Ma non c'è tempo, non ce n'è più. Devo andare. La valigia non si chiude e mentre corro perdo ogni cosa per strada. E' sempre inutile cercare di portarsi dietro qualcosa dal passato, penso, mentre nelle mie orecchie rimbombano boati sempre più forti.
Sono più vicini, adesso. Forse non sono bombe. In questo vagone di salvataggio c'è gente che dice si tratti di un'invasione di dinosauri. Boom, boom. Ma nessuno ha risposte precise. Non c'è tempo neanche per avere paura, qui dentro.

Dreamed by: Co

martedì 15 marzo 2011

La sindrome cinese.



Sono in barca. Finalmente, le sensazioni che riconosco. Salsedine, stelle, casa. Però c’è qualcosa che non va. La barca è in una distesa d’acqua immobile, piatta e opaca come un foglio di carta nuova, Il cielo è grigio e c’è una nebbia greve, appoggiata su qualsiasi cosa. È un paesaggio strano, è la Cina, e lo so con certezza anche se non ho punti di riferimento che lo confermino.E poi eccola che arriva, una feluca scivola silenziosa sull’acqua e si accosta alla barca. Un cinese magro, pallido e veloce come una gazzella si insinua nel pozzetto e scende sotto coperta. Ha un enorme cappello a cono che gli copre il volto. Siamo tutti di sotto e lo vedo mentre si avvicina ai miei amici e comincia a fissarli negli occhi, uno ad uno, senza dire una parola, senza un rumore. E uno ad uno, senza una parola e senza un rumore cominciano a ritirarsi nelle loro cuccette con gesti soporiferi e lì, si addormentano. Questo esserino senza volto sta plagiando tutti e non voglio pensare a quale potrebbe essere il suo piano. Ma non ho tempo per queste cose. Devo restare concentrata, non devo dormire, sono l’unica rimasta sveglia e lui sta puntando su di me i suoi occhietti neri, stretti, come crepe in un muro.
Mi rendo conto che sto indietreggiando lentamente verso la cabina di prua e una volta lì, mi stendo e non posso farci assolutamente niente. Il cinese allunga un braccio odioso dentro la cabina e lo vedo prendere la mia borsa, dove ci sono tutti gli oggetti a  cui tengo di più. Mi hanno ipnotizzata e derubata, al centro di quello che dovrebbe essere il mio mondo, il mio altrove migliore. Però alla fine è così faticoso stare qui a preoccuparsi e rimpiangere, la mia mente ha sonno, le mie braccia hanno sonno.Cosa importa poi di ciò che accade là fuori,se posso chiudere gli occhi e riposare.


Dreamed by: Monsters

lunedì 14 marzo 2011

La nave volante.

Torno in Asia. Torno a immergermi in quei cunicoli di odori, sapori, colori, dove spero ancora di trovare quella parte di me che si è perduta chissà dove. In una buia città orientale, fra take away dalle insegne al neon che emanano odori di ogni tipo, sotto un cielo che non si vede perché coperto da ogni sorta di infrastruttura metallica, in mezzo a una fiumana di gente altrettanto insipida, trovo il mio uomo: un tipetto losco, piccolino, dall'aria pericolosa, gli occhiali scuri e l'impermeabile neutro.
Entriamo in uno di questi take away e ordiniamo un'insalata con i gamberi. E' talmente grande che non riesco a finire di mangiarla. Anzi, non riesco neanche a tenerla nel piatto, e devo andare a raccattare le foglie con le bacchette per tutto il tavolo. Forse è così grande perché la proposta che ha da farmi è importante: un'esperienza unica. Un viaggio in nave. Per ritrovare me stessa, dice. Vedrai che ti divertirai.
Perché no, dico io. Il mare mi farà bene.
E così, col mio zainetto, seguo l'uomo fino al molo, dove trovo il mio battello e mi imbarco senza pensarci su.
E' bellissimo, con rifiniture curate e l'aspetto tipico di una nave da marinai. Il legno lucido e l'odore del sale.
Raggiungo la mia cabina, che condivido con un'altra ragazza: è regale, imponente, comoda e invitante (la cabina, non la ragazza). Esauste, ci appisoliamo sul letto, sciogliendo le nostre coscienze nei riflussi morbidi delle onde sotto di noi.
Dormo tantissimo, dormo fino a perdere il momento della partenza; e quando ci svegliamo, mi affaccio all'oblò della stanza per capire dove sono. Invano. L'oblò che dovrebbe aprirsi sui flutti mostra invece una scogliera lontana lontana.
Che succede? - chiedo alla mia roommate.
Benvenuta sulla nave volante, - mi risponde lei, felice -  vai di sopra a scoprire quali sorprese ti attendono qui sopra.
Salgo le scale e torno sul ponte: stiamo volando. La nave è ancorata metri e metri sopra una baia sperduta. Il panorama è bellissimo da quassù. Ma non faccio in tempo a essere felice di quello che ho trovato che si alza un vento fortissimo: la barca comincia a ondeggiare pericolosamente, e il ponte elegante della nave piratesca che avevo visto poco fa si trasforma in una gigantesco gommone di salvataggio, ai cui bordi ci aggrappiamo per non venire sbalzati fuori dalle potenti onde che arrivano fin qui.
E' maremoto, è dramma. Il vento si insinua ovunque, nei vestiti, nei capelli, nelle nostre voci che gridano ma si perdono nel nulla. E' notte, adesso. Non ci sono più scogli rassicuranti a ripararci dal vento e dalla tempesta. Siamo in mezzo al mare, navighiamo senza meta, sotto un cielo inclemente che ha già deciso i nostri destini.
In lontananza, una costa, un paesaggio verdeggiante, una giungla rigogliosa fitta di fiori mannari dai colori sgargianti, un paese di pescatori blu che forse non vedremo mai.
O forse, in un prossimo sogno.

Dreamed by: Co.

mercoledì 9 marzo 2011

Lo stagista motociclista.

E' giovane, determinato e vuole lavorare per me. Al colloquio per la selezione dello stagista mi ha fatto una buona impressione, certo. Ma non abbastanza. C'è qualcosa che manca. Non so cosa.
Ma non sono ancora convinta.
Forse se n'è accorto, e si gioca un'ulteriore carta per cercare di convincermi: la tessera di appartenenza a un noto gruppo di motociclisti.
Non è vero, dico io. Li conosco molto bene, e tu non ne fai parte.
Non è vero, dice lui. Guarda che è molto più di quel che pensi.
E così viene fuori che un noto gruppo di motociclisti, affermati professionisti e persone rispettabili, altro non è che una vera e propria organizzazione malavitosa, sul modello delle scimmie di Tyler Durden in Fight Club, con nuclei indipendenti ma attivi lungo tutta la penisola.
Vere e proprie cellule criminali che operano nell'ombra, al riparo dalle loro vite di successo, per smantellare il sistema dal suo interno.
Siamo circondati, penso., mentre il giovane aspirante stagista rimette la sua tessera al suo posto, nella tasca interna del giubbotto, proprio vicina al cuore.
Siamo fottuti, penso.
Però, lui, non lo prendo lo stesso.

Dreamed by: Co.

martedì 8 marzo 2011

Sara, di Diego.

Distolta dal sonno nel pieno della notte. Avvolta da una coperta di lana vecchia a scacchi nera e rossa c'è Sara, guance morbide e boccoli d'oro stropicciati dal sonno. Me la ritrovo tra le braccia. Resta nel bozzolo di quelle coperte, le stesse con le quali si scaldava nel letto piccolo di quella stanza. Mi ritrovo una bambolina muta tra le braccia, mi guarda e il suo sguardo smarrito in silenzio strilla "non capisco che succede ma capisco che ho paura".
La madre me l'ha messa tra le braccia, senza conoscermi. Sono sbucato in casa sua da un buco sul muro, l'ennesima granata piovuta dal cielo. Farci l'abitudine è impossibile. Maledetti, ci colpiscono la notte per mietere più vittime. Come se la soluzione fosse quella. Sara è muta, quel silenzio mi blocca, il pianto della madre impietrisce, ma non posso lasciarle così. So di avere fiato corto per questa gara ma inizio a correre lo stesso. Mi piego intorno a quel tesoro, sarò il suo scudo, con il busto, con la schiena, a tutti i costi, Sara, vedrà domani la luce del sole.
Fuori piove polvere, acciaio, schegge di ogni cosa. Il buio non aiuta a correre, a farci strada, il fardello pesa, ma la forza di volontà deve arrivare più lontano, oltre quella maledetta collina. Paradossalmente, in quel buio, l'unica cosa da non seguire sono quelle scie sottili luminose che accendono la notte come la strobo in un locale, traccianti, infami maledetti, sussurrano che sta arrivando qualcosa alle tue spalle o, in questo caso, da ogni direzione.
Sara non piange, non ride, respira forte, la sento sul petto e mi aiuta a non sentirmi distante dalla salvezza. La madre ci segue, dietro. Urla. Come tutti intorno.
Una granata fa un buco infinito a venti metri da noi, i proiettili sembrano scandire il ritmo di una canzone, l'inferno in mp3, senza nessun bisogno di cuffiette.
Troviamo uno spazio, sembra sicuro, stiamo per entrarci dentro, un nuovo tracciante ci passa vicino, ci manca, anche quello che porta con se, ma non perdona la madre. Presa, vola cinque metri lontano da noi. Adesso Sara ha solo me.
La guardo. Mi manca il respiro. Sento una botta sulla spalla.


"....Svegliati, che viene il tizio della caldaia, altrimenti non ti puoi fare la doccia..."

"...'giorno...."
(a mente)
Sara?....Sara....Bel nome...." 



Dreamed by: Diego
Il suo blog: http://inegoblog.blogspot.com/