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Ricordo questo pavimento. Le sue piastrelle in cotto, sempre all'ombra, troppo fredde se calpestate a piedi nudi.
Ricordo il rumore di queste tende mentre le scosto delicatamente per entrare dalla porta, facendo entrare un sottile fascio di luce. Quella luce bianca e polverosa del primo pomeriggio, in agosto, quella luce da cui non puoi nasconderti.
Ricordo questa sensazione di freddo penetrante al contatto con il bracciolo del divano. Il metallo gelido nascosto sotto un materasso morbido su cui lanciarmi guardando mia madre che cucina. E il suo rumore di posate e pentole e lo sfrigolio dell'olio su cui rosolano le patatine fritte. Ricordo che è giovedì. Perchè il giovedì si preparano le patatine fritte, se siamo stati bravi.
Ricordo quest'angolo di buio in corridoio, quello dove non vogliamo mai passare per paura che un orribile e gigantesco mostro ci aggredisca in un metro quadro di oscurità mentre corriamo in camera lanciandoci sui nostri lettini, costretti a fare un pisolino dopo il pranzo e prima del malefico bombolone alla crema. Mangiati mille, tra proteste e strepiti, mai finito neanche uno. Forse è per questo che ancora oggi non riesco a mangiare dolci fritti.
Ricordo questa sagoma, quella di mio fratello in controluce. Le sue gambe corte, con le ginocchia rivolte all'indentro, e i suoi calzettini troppo larghi e cadenti sulle caviglie. Anche in controluce, posso immaginarlo sorridere con quegli occhi luminosi e il ciuccio sempre in bocca, sopra ai suoi denti piccoli e bianchissimi.
Ricordo questo rumore, quello della bicicletta di papà che arriva traballando sul selciato di ciottoli, fischiettando. Qualcosa dei Black Sabbath o dei Deep Purple, qualcosa che viene da un mondo lontano e malinconico, ma che tra le sue labbra ha un retrogusto così soave e bellissimo. Ricordo il numero delle sue lentiggini sulle sue gambe, le uniche cose che da quest'altezza riesco a vedere. La sua pelle bianca e lattiginosa e i piedi nodosi nelle ciabatte da mare.
Ricordo questa casa, quella dei miei genitori al mare, dove passavamo ogni estate senza pensieri.
Ricordo questo senso di beata spensieratezza. Ricordo questa leggerezza nel cuore e nei piedi.
Ricordo ogni dettaglio di questo angolo di cielo dove ho lasciato la mia innocenza. Chiedendomi cosa sarebbe stato di me. E certo non potevo immaginare nulla di ciò che sono oggi.
E ora ricordo perchè, almeno in sogno, ho pensato di venire a passare un po' di tempo proprio qui.
Nella mia innocenza perduta.
Dreamed by: Co.
Se tu me l'avessi detto, che questa strada era storta e non dritta.
Se tu me l'avessi detto, che si sarebbe alzata da terra come un serpente che si sveglia, aprendo le sue spire in mille e mille pieghe e curve sinuose, imprevedibili e senza un ordine vero.
Se tu me l'avessi detto, mi sarei messa gli anfibi e non le zeppe di Vivienne Westwood.
E invece sono qui, a questo capo della strada, e ti guardo che mi guardi dall'altro e con quegli occhi neri come l'universo mi chiedi di raggiungerti. Di corsa.
E io corro e corro e corro e corro e non ti immagini neanche quanto corro.
Corro così tanto che se mi facessero una foto adesso finirei su The Sartorialist, con la pochette in pitone fucsia e la minishirt paillettata e i capelli perfetti controvento grazie a un badile di cera. Corro così tanto che per me dovrebbero inventare una nuova categoria di servizio di moda, tipo, non so, "Paura e sudore a Las Vegas" o "Sweaty is the New Black".
Io corro e corro sui miei tacchi alti ma non vado da nessuna parte.
Io corro e corro ma queste spire si allungano sempre più, e sul dorso di questo serpente di cemento si snodano persone che mi bloccano, vogliono toccarmi, vogliono fotografarmi, vogliono fermarmi, e io mi dimeno in questo groviglio di rami pungenti dalle sembianze umane strappandomi i vestiti ma senza raggiungerti mai.
Io corro e corro e i tuoi occhi sono sempre più grandi, sono grandi come il cielo e bui come la notte, e io lo so che tu mi guardi e mi aspetti e l'unica cosa che posso dirti è:
Ancora 5 minuti, non sono pronta. Mi si sono smagliate le calze.
Dreamed by: Co.
Dove l'hai recuperata questa mappa. È surreale, gli dico.
So di essere in una città che non ha stato e nemmeno un nome, bagnata da un mare inferocito e ghiacciato.
Attorno a me mille persone, persone felici che si muovono veloci e parlano una lingua mai esistita, che capisco perfettamente.
Io sono ovunque, passo da una parte all'altra in un secondo, esploro ogni angolo, sono solo ma non mi sento solo.
In un attimo il tempo rallenta, davanti a me c'è un uomo grosso, di colore, che indossa un grande piumino nero e mi guarda serio, ma non severo. Mi guarda negli occhi e mi porge un mestolo con un liquido azzurro pieno di puntini brillanti, non so cosa sia ma so che è la cosa più buona che possa mai esistere. Bevo senza esitazioni, non percepisco alcun sapore, solo purezza, soltanto l'essenza della bontà, dentro di me. La mia mente è fresca come se qualcuno ci soffiasse delicatamente dentro, rendendola leggera, il mio corpo e' pieno di energia , si muove come se fosse aiutato da una forza amica, tutto mi sembra bellissimo, tutti sono bellissimi, sento il rumore del mare vicino a me che copre ogni rumore.
Dreamed by: Parco Cane.
Noi due occupiamo due lati, il sotto, su cui ci troviamo e il sopra, a cui rivolgiamo l'occhio. Anzi, gli occhi, quattro, per essere precisi.
Degli altri lati, che sappiamo si trovano lì, da qualche parte, non ci interessa granché.
Per essere di nuovo precisi, anche se troppa precisione ci annoia, tanto quanto uno scoiattolo che mastica, di quegli altri lati non ci frega niente e forse neanche ci sono.
Sotto è tutto normale, nel senso che chissà com'è, quel sotto lì. Noi di sicuro non lo vediamo.
Come potremmo, del resto, visto che guardiamo in su?
Veniamo al su, quindi.
Su, sul soffitto, è pieno di nuvole.
Bianche e dense, scure e grasse, perfino unte. Sta per piovere, ma non piove.
E non ci sembra strano affatto. Noi non abbiamo mai visto piovere pioggia in una stanza.
Abbiamo visto piovere piatti, calzettoni, mutande.
Abbiamo visto piovere ceffoni e insulti, sorrisi e occhiatacce.
Ma pioggia mai.
Decidiamo di agire e iniziamo a saltare stlie canguri per prendere le nuvole e strizzarle e far piovere.
Di botto ci rendiamo conto di essere non essere soli.
E succede solo ora, anche se abbiamo sognato al plurale fin dall'inizio.
Ci vediamo senza guardarci e sappiamo che siamo in due.
Io e un bastardo.
Ma siccome io sono un bastardo, anche il bastardo sono io.
Siamo due bastardi che provano a far piovere in una stanza, una stanza piena di nuvole.
Ci dedichiamo un sorriso sghembo e speculare, che vediamo con la coda dell'occhio, speculare pure lui.
Le nuvole si discostano, lasciano cielo a un bel senso di soddisfazione.
Piova pure finché vuole, saranno sempre solo gocce.
giovedì 20 dicembre 2012
L'innocenza perduta.
Ricordo questo pavimento. Le sue piastrelle in cotto, sempre all'ombra, troppo fredde se calpestate a piedi nudi.
Ricordo il rumore di queste tende mentre le scosto delicatamente per entrare dalla porta, facendo entrare un sottile fascio di luce. Quella luce bianca e polverosa del primo pomeriggio, in agosto, quella luce da cui non puoi nasconderti.
Ricordo questa sensazione di freddo penetrante al contatto con il bracciolo del divano. Il metallo gelido nascosto sotto un materasso morbido su cui lanciarmi guardando mia madre che cucina. E il suo rumore di posate e pentole e lo sfrigolio dell'olio su cui rosolano le patatine fritte. Ricordo che è giovedì. Perchè il giovedì si preparano le patatine fritte, se siamo stati bravi.
Ricordo quest'angolo di buio in corridoio, quello dove non vogliamo mai passare per paura che un orribile e gigantesco mostro ci aggredisca in un metro quadro di oscurità mentre corriamo in camera lanciandoci sui nostri lettini, costretti a fare un pisolino dopo il pranzo e prima del malefico bombolone alla crema. Mangiati mille, tra proteste e strepiti, mai finito neanche uno. Forse è per questo che ancora oggi non riesco a mangiare dolci fritti.
Ricordo questa sagoma, quella di mio fratello in controluce. Le sue gambe corte, con le ginocchia rivolte all'indentro, e i suoi calzettini troppo larghi e cadenti sulle caviglie. Anche in controluce, posso immaginarlo sorridere con quegli occhi luminosi e il ciuccio sempre in bocca, sopra ai suoi denti piccoli e bianchissimi.
Ricordo questo rumore, quello della bicicletta di papà che arriva traballando sul selciato di ciottoli, fischiettando. Qualcosa dei Black Sabbath o dei Deep Purple, qualcosa che viene da un mondo lontano e malinconico, ma che tra le sue labbra ha un retrogusto così soave e bellissimo. Ricordo il numero delle sue lentiggini sulle sue gambe, le uniche cose che da quest'altezza riesco a vedere. La sua pelle bianca e lattiginosa e i piedi nodosi nelle ciabatte da mare.
Ricordo questa casa, quella dei miei genitori al mare, dove passavamo ogni estate senza pensieri.
Ricordo questo senso di beata spensieratezza. Ricordo questa leggerezza nel cuore e nei piedi.
Ricordo ogni dettaglio di questo angolo di cielo dove ho lasciato la mia innocenza. Chiedendomi cosa sarebbe stato di me. E certo non potevo immaginare nulla di ciò che sono oggi.
E ora ricordo perchè, almeno in sogno, ho pensato di venire a passare un po' di tempo proprio qui.
Nella mia innocenza perduta.
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lunedì 17 dicembre 2012
La corsa in passerella.
Se tu me l'avessi detto, che questa strada era storta e non dritta.
Se tu me l'avessi detto, che si sarebbe alzata da terra come un serpente che si sveglia, aprendo le sue spire in mille e mille pieghe e curve sinuose, imprevedibili e senza un ordine vero.
Se tu me l'avessi detto, mi sarei messa gli anfibi e non le zeppe di Vivienne Westwood.
E invece sono qui, a questo capo della strada, e ti guardo che mi guardi dall'altro e con quegli occhi neri come l'universo mi chiedi di raggiungerti. Di corsa.
E io corro e corro e corro e corro e non ti immagini neanche quanto corro.
Corro così tanto che se mi facessero una foto adesso finirei su The Sartorialist, con la pochette in pitone fucsia e la minishirt paillettata e i capelli perfetti controvento grazie a un badile di cera. Corro così tanto che per me dovrebbero inventare una nuova categoria di servizio di moda, tipo, non so, "Paura e sudore a Las Vegas" o "Sweaty is the New Black".
Io corro e corro sui miei tacchi alti ma non vado da nessuna parte.
Io corro e corro ma queste spire si allungano sempre più, e sul dorso di questo serpente di cemento si snodano persone che mi bloccano, vogliono toccarmi, vogliono fotografarmi, vogliono fermarmi, e io mi dimeno in questo groviglio di rami pungenti dalle sembianze umane strappandomi i vestiti ma senza raggiungerti mai.
Io corro e corro e i tuoi occhi sono sempre più grandi, sono grandi come il cielo e bui come la notte, e io lo so che tu mi guardi e mi aspetti e l'unica cosa che posso dirti è:
Ancora 5 minuti, non sono pronta. Mi si sono smagliate le calze.
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mercoledì 12 dicembre 2012
Gente di montagna.
Dove l'hai recuperata questa mappa. È surreale, gli dico.
Non ci vorrà poi tanto, l'ho fatto da solo lo
scorso weekend, praticamente una sgambata.
Vedo. Basta seguire il nord. Visto che questa
mappa segna il nord su tutti i punti cardinali.
Non farci caso. Sarà facile.
Se lo dici tu. Ma devo fermarmi a prendere le
sigarette.
Guarda che questa è una cosa seria. Non sarà
facile, è bene che tu lo sappia.
Ma avevi detto...
Dobbiamo risalire un canyon, camminare in mezzo
al bosco e fare un'arrampicata su una parete verticale.
Ma io ho i tacchi.
Ci vorrà tutto il giorno.
E i jeans stretti.
Ci vorrà volontà e impegno.
Il primo alpinista che incontriamo mi denuncia
alla buon costume.
Tutti dovrebbero fare questa cosa una volta
nella vita. Devi farlo anche tu.
Ma quindi, niente sigarette?
No.
E va bene, andiamo.
Andiamo.
E ora dove siamo?
Nello studio di mio padre, devo cercare una
cosa.
Tuo padre ha uno studio su un sentiero di
montagna? Comodo.
È un posto segreto, non devi dirlo a nessuno.
Oh.
...
Senti, ti vedo piuttosto indaffarato, ma posso
chiederti una cosa?
Sì.
Perché sto sul divano dello studio di tuo
padre, sperso su un sentiero di montagna, con i pantaloni calati e un pastore
tedesco che mi annusa i piedi?
È il tuo sogno, non il mio.
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giovedì 29 novembre 2012
Così mi pace, di Pig Jim.
Attorno a me mille persone, persone felici che si muovono veloci e parlano una lingua mai esistita, che capisco perfettamente.
Io sono ovunque, passo da una parte all'altra in un secondo, esploro ogni angolo, sono solo ma non mi sento solo.
In un attimo il tempo rallenta, davanti a me c'è un uomo grosso, di colore, che indossa un grande piumino nero e mi guarda serio, ma non severo. Mi guarda negli occhi e mi porge un mestolo con un liquido azzurro pieno di puntini brillanti, non so cosa sia ma so che è la cosa più buona che possa mai esistere. Bevo senza esitazioni, non percepisco alcun sapore, solo purezza, soltanto l'essenza della bontà, dentro di me. La mia mente è fresca come se qualcuno ci soffiasse delicatamente dentro, rendendola leggera, il mio corpo e' pieno di energia , si muove come se fosse aiutato da una forza amica, tutto mi sembra bellissimo, tutti sono bellissimi, sento il rumore del mare vicino a me che copre ogni rumore.
E ballo.
Non c'è musica ma tutti sembrano ballare la stessa melodia, tutto è dentro di noi, trasformato in sensazioni. Ci sono vecchie che ballano travolte dalla gioia , bambini che si muovono goffi con un sorriso fisso e furbo. Uomini che si abbracciano e donne bellissime che mi guardano e mi sorridono versandomi in bocca del vino freddo da piccoli bicchieri d'argento.
Fino a quando non guardo più niente.
Fino a quando non guardo più niente.
Tra tutte le persone, una.
Tra tutto il piacere, uno.
Tra tutti gli sguardi solo uno, l'unico che non mi guarda mai.
"Com'è possibile che ho cercato tanto la bellezza, quando la bellezza è così semplice ed è qui davanti." penso.
"Com'è possibile che ho cercato tanto la bellezza, quando la bellezza è così semplice ed è qui davanti." penso.
L'amore era dentro quel mestolo, è come un iniezione. L'amore e' semplice.
Rimango un tempo indeterminato ma lungo a seguire ogni suo movimento e mi sembra di fare scorta di qualcosa di cui sono in riserva da una vita.
E penso:"qui sono tutti come me, sono venuti tutti a riempirsi di succo!" e quando lo penso un signore ciccione avvicina la sua faccia grossa alla mia e mi sorride annuendo vistosamente.
"Ho capito, ma io voglio lei!" mi avvicino e le tocco la faccia, la annuso, ci abbracciamo, lei mi guarda negli occhi sorridendo e mi mette una mano davanti alla bocca, come per tenerla a bada, per metterla in pausa. Io ho solo bisogno del suo odore e della sua pelle, mi basta.
Rimango avvolto da una felicità immensa, forse fino al suo apice, tutto mi avvolge: i suoni, i colori, gli odori.
Lentamente, è tutto scuro. Ora c'è solo silenzio.
Sono solo in un letto immenso e bianco.
Mi siedo su me stesso.
Voglio disperatamente un hamburger.
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mercoledì 10 ottobre 2012
Non è un paese per vecchie.
Il fatto che io indossi una
specie di pigiama e delle improbabili pantofoline pelose, mentre vado a lavorare
in macchina, comincia subito con l’infastidirmi.
Però non mi scompongo. L’aplomb
è tutto. E voi non sapete con chi avete a che fare, care babbucce in pelouche.
E tu, specie di pigiama, ci vuole molto più di una
trama ad elefanti azzurri per impedirmi di camminare a testa alta tra la gente.
Vedrai.
Ma mentre mi appresto a scendere
dalla macchina, in macchina, entra lei.
Una signora anziana, molto
anziana. Che apre lo sportello e con movenze soporifere si sistema sul sedile
posteriore. Io la guardo dallo
specchietto retrovisore. Lei mi restituisce uno sguardo alla Clint Eastwood, ai
tempi di Sergio Leone. Ho una fugace visione di un Clint in abiti da vecchia,
con tanto di calza contenitiva e borsetta vintage. La cosa non fa una piega se
accostiamo questa immagine a me che guido in pigiama elefantiaco.
Potrei andare avanti a fare
accostamenti inquietanti ancora a lungo, se non fosse che la vecchia mi tira fuori
un’arma dalla borsetta e me la punta alla testa.
Io l’avevo detto, una
citazione di Sergio Leone si porta sempre dietro la sparatoria.
- Metti in moto e accompagnami al mio paese.- mi dice, mentre un accenno di Parkinson fa tremare
vistosamente la bocca della pistola a pochi millimetri dalla mia tempia.
- Signora, non può prendere un taxi?-
È la mia dignità a parlare. Anche
se il suo dito instabile su quel grilletto mi spaventa, stiamo pur sempre
parlando di un'ultraottantenne che sta cercando di sequestrarmi. Che diamine.
- Signorina, lo sa quanto prendo di pensione? Secondo
lei posso permettermi un taxi? In questo Paese […] dove gli anziani vengono
lasciati a loro stessi! E poi le sembra il modo di rivolgersi […] ? Io ho visto
due guerre, sa […]? -
Non ha tutti i torti. Mi
viene voglia di proporle un affare. Abbiamo l’arma. Abbiamo la follia. Potremmo
andare a svaligiare una banca, così, su due piedi pantofolati.
- Metta in moto e si sbrighi. Ci vogliono 200 km per
arrivare al mio paese. E alle 2 comincia Uomini e Donne. -
Eh no. Questo no. Essere
minacciata di morte per tenere alto l’audience di Maria de Filippi è troppo.
- Che ne dice se la lascio alla fermata dell’autobus?-
- Va bene.-
Finisce così. Con un “va
bene”. Mi sembra chiaro che se questa sceneggiatura arrivasse sulla scrivania di Tarantino, verrebbe buttata nel gabinetto, nonostante le citazioni a lui care. Alla fermata dell’autobus,
guardo la vecchietta uscire e allontanarsi con passo malfermo, ma fiero.
In qualche modo, sento un moto di simpatia. Tra cercare di tenere alto l’orgoglio in un nugolo di
elefanti azzurri e conservare la propria dignità quando neanche un’arma ti
impedisce di essere abbandonata a te stessa, il passo è breve.
In fondo, per un pugno di
chilometri, quel passaggio avrei anche potuto darglielo.
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mercoledì 11 luglio 2012
L'immenso boh, di Parco Cane.
L'ambiente è
spoglio, bianchiccio, grigio topo albino, quasi da muratori che non hanno
finito di lavorare. A voler fare i colti a tutti i costi e nei sogni queste
cose si fanno eccome, ricorda l'ambiente di un'installazione di Fischli -
Weiss.
Uno schermo illuminato dietro la mia spalla destra, una platea di sedie
e persone dietro la mia spalla sinistra.
Io in mezzo, di profilo. Non guardo lo
schermo e neppure la platea, osservo con una certa noncuranza il muro davanti a
me.
Comprendo perfettamente che stia andando in scena uno spettacolo che quelli
in platea guardano in silenzio. Ma non so di quale spettacolo si tratti e di
che cosa tratti.
Tra l'altro, non c'è audio, il silenzio si muove nel cono di
luce che il proiettore dietro la platea irradia verso me e verso lo schermo,
che di luce ne ha troppa. Più che bianca pare morta e risorta, quella luce.
Io
sono lì in mezzo, in pieno spettrogramma proiettato verso lo schermo. Resto
fermo cercando di non disturbare perchè sono in mezzo agli occhi degli altri.
Ma
non ce la faccio e provo a spostare, di poco, la sedia verso l'altro muro,
quello che sta di fronte alla mia schiena, quello che regge il confronto con la
mia colonna vertebrale.
Nel farlo, nel muovermi, sorrido con imbarazzo verso la
platea. Che non fa una piega, anche perché non percepisco alcuna presenza
umana.
A rivoler rifare i colti a tutti i costi e nei sogni queste cose si
rifanno eccome, ricorda la performance di Marina Abramovic, il Method.
Comunque,
mi sposto di qualche centimetro, ma la luce morta e risorta è sempre lì.
In
effetti, tutto è lì e nient'altro esiste.
Improvvisamente realizzo dove mi
trovo: non so dove.
E non mi piace affatto.
Ecco perché mi sveglio.
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mercoledì 6 giugno 2012
La torta galleggiante.
Gira che ti rigira mi ritrovo sempre qui, in questa villa con l'ingresso troppo alto e le stanze da letto troppo basse. Pare che stavolta ho perso la famiglia e sono stata adottata da degli zii mai visti. In verità non li vedo neanche adesso, ed è probabile che non li veda nessuno da un po', perchè questa villa è veramente fatiscente. Il giardino è la cosa che mi fa più impressione: rami secchi ovunque, piante moribonde, foglie sparse dappertutto.
La villa è recintata su tutti i lati: i giovani del villaggio sono piuttosto irrequieti e bisogna proteggersi.
Decido comunque di andare a fare un giro in paese per andare a fare la spesa al mercato.
Mi guardano tutti male: sono vestita troppo bene per loro. Troppo ordinata, troppo bon ton. Gruppetti di punk mi squadrano da capo a piedi come se fossi una criminale. Tutte le borchie sono puntate su di me mentre faccio i miei acquisti e torno di buona lena verso il cancello di casa, dove una guardia del corpo grande e grossa protegge l'ingresso. Dalla rete che mi separa dall'esterno sbircio quei ragazzi, e uno ricambia il mio sguardo con interesse: è uno dei punk di prima.
Mi sembra di riconoscerlo. Ah si, è Joe Strummer. Pensa te. Con un complicato sistema di segnali non verbali gli faccio capire che lo aspetterò in giardino quella sera, appena cala il buio.
Devo preparare qualcosa di speciale per il mio appuntamento punk: credo che la mia famosa torta galleggiante potrebbe andare bene.
La ricetta è semplice: basta fare una gigantesca torta al cioccolato, farcirla di cioccolato, ricoprirla con una delicata glassa al cioccolato e guarnire con abbondante cioccolato. Ciliegina sulla torta, qualche spruzzata di cioccolato qua e là. Anche in cucina. O meglio in giardino, che io cucino qui per terra, mica in quella cucina zozza e trasandata. Lasciar riposare qualche secondo e poi tagliare la torta in porzioni da, diciamo, 5 centimetri a lato, perchè la torta tonda che avete fatto si è trasformata n una teglia di brownies quadrati e molli.
Prendete i quadrati molli e appoggiateli delicatamente sulla superficie dell'acqua della piscina. Lasciateli galleggiare allegramente dopo aver messo su ognuno di loro una candelina accesa: l'atmosfera è fatta.
Appena in tempo, perché Joe sta per arrivare: sento che qualcuno sta scavalcando la rete metallica. Dev'essere lui.
Come minimo dovrei offrigli un pezzo di torta. Ma sono tutti al centro della piscina adesso, e non riesco a recuperarli. Dovrò usare questo retino sporco di alghe.
Le alghe non stanno bene con la torta al cioccolato, pensa una metà del mio cervello.
Chissenefrega, pensa la metà punk del mio cervello.
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La villa è recintata su tutti i lati: i giovani del villaggio sono piuttosto irrequieti e bisogna proteggersi.
Decido comunque di andare a fare un giro in paese per andare a fare la spesa al mercato.
Mi guardano tutti male: sono vestita troppo bene per loro. Troppo ordinata, troppo bon ton. Gruppetti di punk mi squadrano da capo a piedi come se fossi una criminale. Tutte le borchie sono puntate su di me mentre faccio i miei acquisti e torno di buona lena verso il cancello di casa, dove una guardia del corpo grande e grossa protegge l'ingresso. Dalla rete che mi separa dall'esterno sbircio quei ragazzi, e uno ricambia il mio sguardo con interesse: è uno dei punk di prima.
Mi sembra di riconoscerlo. Ah si, è Joe Strummer. Pensa te. Con un complicato sistema di segnali non verbali gli faccio capire che lo aspetterò in giardino quella sera, appena cala il buio.
Devo preparare qualcosa di speciale per il mio appuntamento punk: credo che la mia famosa torta galleggiante potrebbe andare bene.
La ricetta è semplice: basta fare una gigantesca torta al cioccolato, farcirla di cioccolato, ricoprirla con una delicata glassa al cioccolato e guarnire con abbondante cioccolato. Ciliegina sulla torta, qualche spruzzata di cioccolato qua e là. Anche in cucina. O meglio in giardino, che io cucino qui per terra, mica in quella cucina zozza e trasandata. Lasciar riposare qualche secondo e poi tagliare la torta in porzioni da, diciamo, 5 centimetri a lato, perchè la torta tonda che avete fatto si è trasformata n una teglia di brownies quadrati e molli.
Prendete i quadrati molli e appoggiateli delicatamente sulla superficie dell'acqua della piscina. Lasciateli galleggiare allegramente dopo aver messo su ognuno di loro una candelina accesa: l'atmosfera è fatta.
Appena in tempo, perché Joe sta per arrivare: sento che qualcuno sta scavalcando la rete metallica. Dev'essere lui.
Come minimo dovrei offrigli un pezzo di torta. Ma sono tutti al centro della piscina adesso, e non riesco a recuperarli. Dovrò usare questo retino sporco di alghe.
Le alghe non stanno bene con la torta al cioccolato, pensa una metà del mio cervello.
Chissenefrega, pensa la metà punk del mio cervello.
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venerdì 1 giugno 2012
Pesticidi, di Parco Cane.
Oh.
Ho sentito bussare alla porta e ho aperto.
Ho visto nessuno e ho richiuso la porta.
Ho risentito bussare e mi sono risentito anch'io nel riaprire la porta e non vedere nessuno per la seconda volta.
Ho richiuso.
Ho risentito (bussare).
Ho risentito pure me medesimo (più di prima).
Ho riaperto.
Ho richiuso (nessuno fuori, ovvio).
Ho risentito (bussare).
Ho risentito (me bestemmiare).
Ho rinunciato ad aprire.
Ho risentito (ribussare, ovvio pure questo).
Ho rialzato il deretano dal divano.
Ho anzi no riaperto.
Ho risentito (le parolacce sgorgare felici e piene dalla mia gola spalancata davanti alla porta chiusa).
Ho capito che devo fissare la persiana che di notte sbatte e mi fa fare sogni ripetitivi.
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martedì 22 maggio 2012
Il dinosauro camuffato.
Ma che bel mare! Ma che bella scogliera! Ma che bello stormo di gabbiani!
Che brezza deliziosa! Che atmosfera vacanziera, solare e allegra!
Penso proprio che scalerà questa bella roccia, si, e andrò a vedere il picco da cui i gabbiani si tuffano in mare.
Voglio vedere i loro culetti pennuti spiccare il volo sul vuoto e planare delicatamente sulle onde del mare.
E in cima alla roccia, che sorpresa! C'è un intero nido di gabbiani! Che meraviglia!
Penso proprio che estrarrò la mia macchina fotografica dallo zainetto e coglierò il momento in cui uno dei questi piccoli pennuti viene al mondo.
Ma quanti gabbiani, eh, qui intorno. Si avvicinano a me e mi guardano curiosi. Che teneri! Mi hanno accolto come una di loro!
Ma guarda, laggiù ce n'è uno più grosso degli altri. Ecco che si avvicina. Che carino, com'è bianco e panciuto!
Ora è proprio vicino a me. Lo vedo bene. E noto che c'è qualcosa di strano.
Apre il becco, e in fondo alla gola c'è qualcosa. E non è un esofago. E' verde.
La faccia da gabbiano comincia a lacerarsi intorno al becco che si spalanca sempre di più, fino a rivelare la bestia feroce nascosta al suo interno. Un dinosauro! Vero! In squame ed ossa!
E furbo! Si era travestito da gabbiano per divorarsi indisturbato tutto il popolo della roccia.
Che simpatica canaglia!
Penso proprio che, zitta zitta, mi allontanerò lasciandolo indisturbato alla sua strage. Così, per non rischiare di essere morsicata per sbaglio anche io, che di gabbiano ho ben poco, ma poco importa, lo sanno tutti che ai dinosauri piacciono le turiste con la macchina fotografica nello zainetto.
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Che brezza deliziosa! Che atmosfera vacanziera, solare e allegra!
Penso proprio che scalerà questa bella roccia, si, e andrò a vedere il picco da cui i gabbiani si tuffano in mare.
Voglio vedere i loro culetti pennuti spiccare il volo sul vuoto e planare delicatamente sulle onde del mare.
E in cima alla roccia, che sorpresa! C'è un intero nido di gabbiani! Che meraviglia!
Penso proprio che estrarrò la mia macchina fotografica dallo zainetto e coglierò il momento in cui uno dei questi piccoli pennuti viene al mondo.
Ma quanti gabbiani, eh, qui intorno. Si avvicinano a me e mi guardano curiosi. Che teneri! Mi hanno accolto come una di loro!
Ma guarda, laggiù ce n'è uno più grosso degli altri. Ecco che si avvicina. Che carino, com'è bianco e panciuto!
Ora è proprio vicino a me. Lo vedo bene. E noto che c'è qualcosa di strano.
Apre il becco, e in fondo alla gola c'è qualcosa. E non è un esofago. E' verde.
La faccia da gabbiano comincia a lacerarsi intorno al becco che si spalanca sempre di più, fino a rivelare la bestia feroce nascosta al suo interno. Un dinosauro! Vero! In squame ed ossa!
E furbo! Si era travestito da gabbiano per divorarsi indisturbato tutto il popolo della roccia.
Che simpatica canaglia!
Penso proprio che, zitta zitta, mi allontanerò lasciandolo indisturbato alla sua strage. Così, per non rischiare di essere morsicata per sbaglio anche io, che di gabbiano ho ben poco, ma poco importa, lo sanno tutti che ai dinosauri piacciono le turiste con la macchina fotografica nello zainetto.
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venerdì 11 maggio 2012
Vetro.
Mi dicono che l'acqua è fredda ma io so che non è vero.
Mi basta guardare di sotto, attraverso il verde che diventa blu che diventa verde per capire che quest'acqua mi accoglierebbe come un nido.
La nuotata del secolo. Non posso rinunciare.
Mi dicono che è fredda. Che non c'è tempo. Che siamo fuori stagione. Che il salto è troppo alto. Che non ho il costume. Che mi verrà un raffreddore. Che é notte fonda (e non lo è). Che mi multeranno. Che sono solo una piccola capricciosa bagnodipendente.
Va bene, lo sono, arrestatemi.
Ma io questo bagno lo faccio.
Pluff.
Oh sì.
Se dovessi scegliere ora, questa è l'unica sensazione che mi porterei nell'aldilà. E, non c'è neanche bisogno di dirlo, la temperatura è perfetta.
State bene voi, lì sopra, intrappolati nei vostri abiti stirati. State bene voi, con i vostri capelli fonati.
Qui sotto invece è tutta nudità e scompiglio e capriole e bollicine.
Statemi bene, voi.
E poi qualcosa mi punge. Di certo una medusa, ma che importa, piccola creaturina del mare non ce l'avrò mai con te. E quando esco dall'acqua mi guardo addosso e vedo una zona arrossata sull'indice della mano destra. Passerà. Ma in breve il rossore si trasforma in una macchia netta, rosso fuoco, con un contorno nero ben definito, come un tatuaggio. Passerà, mi dico ancora. Poi la macchia si estende alle dita vicine e poi all'altra mano e in un attimo è come se avessi due bei guanti rossi. Passerà? E i guanti rossi diventano sempre più spessi e ruvidi, cambiano colore, si trasformano in un mosaico psichedelico a forma di mani e forse dovrei cominciare a preoccuparmi.
Ma tutto questo è così curioso che non c'è spazio per l'angoscia. E se non passa, mi terrò le mie mani psichedeliche.
E ora, un formicolìo. Forse le mie mani vogliono uscire.
La corteccia lisergica comincia a creparsi qua e là e all'altezza del dito medio, ecco che si sbriciola.
Solo che, sotto, il mio dito medio non c'è più.
La paura mi colpisce con un gancio ben assestato e per poco non finisco ko.
Nel giro di pochi secondi, tutto è polvere e briciole e le mie dita, tutte e dieci, andate.
Un montante in pieno volto e l'incontro è finito. Le mie mani finite. La curiosità finita.
Ma il sogno no.
Perchè arriva il deus ex machina. Di cui non ricordo niente, ma non importa ai fini della storia.
E il deus ex machina, come è normale che sia, ha la soluzione.
Dita di vetro. Esattamente. Lui le costruirà per me e io avrò di nuovo le mie mani.
L'ultima cosa che passa per questo sogno è quel rumore, tin, tin, tin.
Le mie nuove dita di vetro trasparente, montate su mani di carne, che tintinnano su un tavolo di legno.
E vi assicuro che le mie tintinnano. Le vostre possono al massimo tamburellare.
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martedì 24 aprile 2012
L'alieno poliposo.
Che poi, uno dice, la storia è sempre quella.
Gli alieni invadono la terra, rapiscono qualche esemplare, la stessa storia di esperimenti scientifici su corpi umani, qualche sparaflashata per dimenticare tutto, e nel frattempo puf, la terra sparisce dal planisfero della galassia.
Uno dice, stessa storia. Si, ma quando ci sei in mezzo tu, permettete, è un po' diverso.
Io qui con gli alieni non ci sto mica tanto bene. Sono viola, viscidi e sembrano dei grandi poliponi sudati. Grandi, giganteschi poliponi. A dire la verità hanno tutti colori diversi, ma io ne vedo sempre solo uno, per questo penso che siano tutti viola.
E' un alienone crudelissimo. Non solo ha fatto su di me esperimenti raccapriccianti, ma mi ha anche nominato capo esperimento: il mio compito è coordinare gli esperimenti sugli altri umani.
Quelli rimasti vivi, si intende.
Ora, quelli si lamentano e si lamenta pure polipone: gli uni vorrebbero smetterla con queste iniezioni, l'altro dice che battiamo la fiacca. In un batter d'occhio mi trasformo in una specie di sindacalista della materia oscura, e vado dal mio caro violoncello spaziale a cantargliene quattro.
Senonché il grande mostro se ne sta alla finestra a guardare quell'angolo di cielo in cui doveva esserci la Terra, e guarda caso non c'è più.
Ma porca Eva. Non puoi distrarti un attimo che ti fanno fuori il pianeta.
Sono ancora più incazzata. E qui segue il dialogo tra me e viscidone intergalattico.
"Hey, tu. Ma come cazzo ti è venuto in mente di farmi saltare il pianeta?"
"Lo sapevi che sarebbe successo. Io ti ho salvato, e ti ho dato anche delle responsabilità."
"Si polipone, ma tu non capisci: a me manca casa. Rivoglio il mio pianeta!"
"Faceva schifo e lo sai."
"Hai ragione: era pieno di stronzi. Ma c'erano anche delle cose belle sopra."
"Fammi un esempio"
"Il mare quando piove, ad esempio. Il tramonto in piscina con un bicchiere di vino in mano. I dischi degli Oasis. Tornare a casa dalla mamma e trovare il frigo pieno. Prendere l'aereo e atterrare nella giungla asiatica. Le scimmie quando si mettono in posa per una fotografia. Non so, comprare le scarpe. Insomma, ce n'era di robe. E tu, niente, bam, sparito tutto."
"Dovevi dirlo prima, adesso è troppo tardi."
Polipone, vorrei che tu avessi le palle per amputartele, ma le tue poche parole mi hanno fatto sorgere dei dubbi amletici.
E poi si, in fondo era pieno di stronzi.
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Gli alieni invadono la terra, rapiscono qualche esemplare, la stessa storia di esperimenti scientifici su corpi umani, qualche sparaflashata per dimenticare tutto, e nel frattempo puf, la terra sparisce dal planisfero della galassia.
Uno dice, stessa storia. Si, ma quando ci sei in mezzo tu, permettete, è un po' diverso.
Io qui con gli alieni non ci sto mica tanto bene. Sono viola, viscidi e sembrano dei grandi poliponi sudati. Grandi, giganteschi poliponi. A dire la verità hanno tutti colori diversi, ma io ne vedo sempre solo uno, per questo penso che siano tutti viola.
E' un alienone crudelissimo. Non solo ha fatto su di me esperimenti raccapriccianti, ma mi ha anche nominato capo esperimento: il mio compito è coordinare gli esperimenti sugli altri umani.
Quelli rimasti vivi, si intende.
Ora, quelli si lamentano e si lamenta pure polipone: gli uni vorrebbero smetterla con queste iniezioni, l'altro dice che battiamo la fiacca. In un batter d'occhio mi trasformo in una specie di sindacalista della materia oscura, e vado dal mio caro violoncello spaziale a cantargliene quattro.
Senonché il grande mostro se ne sta alla finestra a guardare quell'angolo di cielo in cui doveva esserci la Terra, e guarda caso non c'è più.
Ma porca Eva. Non puoi distrarti un attimo che ti fanno fuori il pianeta.
Sono ancora più incazzata. E qui segue il dialogo tra me e viscidone intergalattico.
"Hey, tu. Ma come cazzo ti è venuto in mente di farmi saltare il pianeta?"
"Lo sapevi che sarebbe successo. Io ti ho salvato, e ti ho dato anche delle responsabilità."
"Si polipone, ma tu non capisci: a me manca casa. Rivoglio il mio pianeta!"
"Faceva schifo e lo sai."
"Hai ragione: era pieno di stronzi. Ma c'erano anche delle cose belle sopra."
"Fammi un esempio"
"Il mare quando piove, ad esempio. Il tramonto in piscina con un bicchiere di vino in mano. I dischi degli Oasis. Tornare a casa dalla mamma e trovare il frigo pieno. Prendere l'aereo e atterrare nella giungla asiatica. Le scimmie quando si mettono in posa per una fotografia. Non so, comprare le scarpe. Insomma, ce n'era di robe. E tu, niente, bam, sparito tutto."
"Dovevi dirlo prima, adesso è troppo tardi."
Polipone, vorrei che tu avessi le palle per amputartele, ma le tue poche parole mi hanno fatto sorgere dei dubbi amletici.
E poi si, in fondo era pieno di stronzi.
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giovedì 19 aprile 2012
Murales, di Parco Cane.
Corro lungo un muro lungo.
Muro di pietra.
Lunga pure lei.
Nel senso che le pietre di arenaria che fanno il muro sono pietre lunghe e non brevi e tozzi parallelepipedi (parallelepipedi è una parola ostica, un torcilingua, ma piacevole, mi fa venire in mente degli animaletti -femmina, guarda un po'- che camminano con movimento armonioso, tipo millepiedi jessicaalba, simpatici, con i tacchi e con le tette).
Comunque, scusate la digressione, corro -dicevo- a perdifiato.
E si dice perdifiato ma si dovrebbe scrivere perdi fiato.
Ma non tanto perché a correre si fa fatica e ci si sfiata, solo perché in questo stramaledetto sogno sogno (il primo sostantivo, il secondo verbo) di dover schivare la presa di strani esseri che escono di colpo e a sorpresa dal muro e vogliono prendermi e murarmi con loro in una nicchia di pietra (gli esseri di cui parlo non sono i parallelepipedi di cui parlavo, quelli fanno parte solo della digressione, questi somigliano piuttosto a un maldestro cocktail di zombie e portinaie).
Ma, prima di murarmi, vorrebbero svuotarmi dell'aria che ho ancora in corpo schiacciandomi come si farebbe con materassino gonfiabile da piegare e mettere nel baule dell'auto (è così che perderei fiato nel sogno).
Allora, io corro e schivo braccia di portinaie mortifere, tese a ghermire me e il mio fiato.
Io sono vestito con una canottiera.
Sopra.
Sotto, no.
Niente canottiera, sotto, solo testicoli al vento.
E le gonadi, mentre corro, sbattono tra loro e fanno il suono di congas.
Roba da Africa nera.
Il ritmo della corsa e la velocità del suono crescono insieme.
Crescono, crescono, escono le braccia, che mi finalmente mi prendono, mi schiacciano e mi sgonfiano e mi sbattono nel muro.
Guardo la zombie portinaia (zombinaia) che mi ha acciuffato.
Lei ha lo sguardo zombie. Io le sorrido come si fa e si deve con la portinaia (si se vuole evitare la sparizione della posta).
Le mostro il pene libero e le chiedo se può rigonfiarmi.
Lei mi manda in quel paese e mi spinge fuori dalla nicchia nel muro.
Sei il solito cazzone -mi dice, intanto.
Veramente, sono sgonfio -rispondo.
Che sogno del cazzo (si può dire, sul vostro blog?).
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mercoledì 28 marzo 2012
Lessico e nuvole, di Parco Cane.
Siamo in una stanza.
Come in ogni stanza al mondo, ci sono sei lati: sopra sotto, destra sinistra, davanti dietro.Noi due occupiamo due lati, il sotto, su cui ci troviamo e il sopra, a cui rivolgiamo l'occhio. Anzi, gli occhi, quattro, per essere precisi.
Degli altri lati, che sappiamo si trovano lì, da qualche parte, non ci interessa granché.
Per essere di nuovo precisi, anche se troppa precisione ci annoia, tanto quanto uno scoiattolo che mastica, di quegli altri lati non ci frega niente e forse neanche ci sono.
Sotto è tutto normale, nel senso che chissà com'è, quel sotto lì. Noi di sicuro non lo vediamo.
Come potremmo, del resto, visto che guardiamo in su?
Veniamo al su, quindi.
Su, sul soffitto, è pieno di nuvole.
Bianche e dense, scure e grasse, perfino unte. Sta per piovere, ma non piove.
E non ci sembra strano affatto. Noi non abbiamo mai visto piovere pioggia in una stanza.
Abbiamo visto piovere piatti, calzettoni, mutande.
Abbiamo visto piovere ceffoni e insulti, sorrisi e occhiatacce.
Ma pioggia mai.
Decidiamo di agire e iniziamo a saltare stlie canguri per prendere le nuvole e strizzarle e far piovere.
Di botto ci rendiamo conto di essere non essere soli.
E succede solo ora, anche se abbiamo sognato al plurale fin dall'inizio.
Ci vediamo senza guardarci e sappiamo che siamo in due.
Io e un bastardo.
Ma siccome io sono un bastardo, anche il bastardo sono io.
Siamo due bastardi che provano a far piovere in una stanza, una stanza piena di nuvole.
Ci dedichiamo un sorriso sghembo e speculare, che vediamo con la coda dell'occhio, speculare pure lui.
Le nuvole si discostano, lasciano cielo a un bel senso di soddisfazione.
Piova pure finché vuole, saranno sempre solo gocce.
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venerdì 23 marzo 2012
L'ospedale storto.
Questo è un ospedale, e questo è un camice. Bianco, di quelli classici da operazione chirurgica. A forma di buccia di patata, ma senza la patata. Quelli col culo scoperto, per intenderci.
Questo è un letto di ospedale e questi sono corridoi. Bui e lugubri, percorsi da una luce velata, di quelle luci da film horror, quelle che segui per ore cercando di arrivare alla fonte senza mai arrivarci.
Questi sono i miei piedi e questo è il rumore dei miei passi insicuri nel buio, mentre sorpasso una corsia dopo l'altra, un malato dopo l'altro. Qui soffrono tutti, aggrovigliati nel loro dolore silenzioso e interno, contorti sulle brande coperte da lenzuola verdi, ma sono tutti vestiti come se fossero dei visitatori.
E io, che forse ho appena subito un'operazione, sto da dio.
Sono più piccola degli altri, sono più malata degli altri, sono più inconsistente degli altri. Eppure sto bene.
Forse sono io il fantasma che ho paura abiti questi corridoi inquietanti. Non so.
Vorrei pensarci, vorrei capire: magari potrei provare a parlarne con uno di questi degenti. Chiedergli come va, provare a toccarlo per vedere se gli passo attraverso oppure no, ma mentre sto meditando su questa possibilità succede qualcosa di assurdo: l'ospedale comincia a inclinarsi su un lato, si, sta lentamente scivolando su sé stesso.
In un attimo il panico si impadronisce di tutto l'ospedale: i malati si rinchiudono all'interno delle loro stanze, spaventati, mentre dal nulla spuntano sciami di infermiere che corrono senza direzione da un capo all'altro dello stabile.
Io mantengo la mia calma zen e mi dirigo con lo stesso passo quieto e malfermo verso la sala refezione.
Quella sul lato più inclinato. Cammino ormai con un angolo di 45° sull'universo, quando raggiungo la mia meta: una stanza piena di tavoli su cui inciampano persone in fuga da tutte le parti.
Al tavolo più nascosto siedono tre persone: un'infermiera dai capelli rossi e due inservienti. Calmi come me.
L'ospedale ha smesso di inclinarsi, così posso fare il mio tentativo antifantasmagorico: parlo con loro.
"Mangiamo insieme?" - chiedo.
"Abbiamo tenuto un posto giusto per te" - mi rispondono tirando fuori dall'oscurità tanti cestini per il pranzo. Caso vuole che io abbia con me un pezzo di pane e due fette di prosciutto.
E così, in quest'ospedale mezzo vuoto e tutto storto, nel buio dove risplendono solo i denti bianchissimi dell'infermiera rossa, mi siedo al tavolo con questi demoni dell'oscurità a mangiare in silenzio.
Nel mio camice bianco.
Speriamo solo che non mi guardino il culo.
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Questo è un letto di ospedale e questi sono corridoi. Bui e lugubri, percorsi da una luce velata, di quelle luci da film horror, quelle che segui per ore cercando di arrivare alla fonte senza mai arrivarci.
Questi sono i miei piedi e questo è il rumore dei miei passi insicuri nel buio, mentre sorpasso una corsia dopo l'altra, un malato dopo l'altro. Qui soffrono tutti, aggrovigliati nel loro dolore silenzioso e interno, contorti sulle brande coperte da lenzuola verdi, ma sono tutti vestiti come se fossero dei visitatori.
E io, che forse ho appena subito un'operazione, sto da dio.
Sono più piccola degli altri, sono più malata degli altri, sono più inconsistente degli altri. Eppure sto bene.
Forse sono io il fantasma che ho paura abiti questi corridoi inquietanti. Non so.
Vorrei pensarci, vorrei capire: magari potrei provare a parlarne con uno di questi degenti. Chiedergli come va, provare a toccarlo per vedere se gli passo attraverso oppure no, ma mentre sto meditando su questa possibilità succede qualcosa di assurdo: l'ospedale comincia a inclinarsi su un lato, si, sta lentamente scivolando su sé stesso.
In un attimo il panico si impadronisce di tutto l'ospedale: i malati si rinchiudono all'interno delle loro stanze, spaventati, mentre dal nulla spuntano sciami di infermiere che corrono senza direzione da un capo all'altro dello stabile.
Io mantengo la mia calma zen e mi dirigo con lo stesso passo quieto e malfermo verso la sala refezione.
Quella sul lato più inclinato. Cammino ormai con un angolo di 45° sull'universo, quando raggiungo la mia meta: una stanza piena di tavoli su cui inciampano persone in fuga da tutte le parti.
Al tavolo più nascosto siedono tre persone: un'infermiera dai capelli rossi e due inservienti. Calmi come me.
L'ospedale ha smesso di inclinarsi, così posso fare il mio tentativo antifantasmagorico: parlo con loro.
"Mangiamo insieme?" - chiedo.
"Abbiamo tenuto un posto giusto per te" - mi rispondono tirando fuori dall'oscurità tanti cestini per il pranzo. Caso vuole che io abbia con me un pezzo di pane e due fette di prosciutto.
E così, in quest'ospedale mezzo vuoto e tutto storto, nel buio dove risplendono solo i denti bianchissimi dell'infermiera rossa, mi siedo al tavolo con questi demoni dell'oscurità a mangiare in silenzio.
Nel mio camice bianco.
Speriamo solo che non mi guardino il culo.
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Buongiorno, Signor Presidente.
Buongiorno, Signor Presidente.
Mi guardo intorno. In questa stanza, a parte il tizio pelato che ha appena parlato, ci sono solo io.
Il pelato, mano sulla maniglia della porta e abito doppio petto che neanche a un matrimonio reale, mi guarda con un misto di timore e fiducia, con quell'occhio un po' luccicoso che hanno i cani quando intuiscono che forse è il momento della passeggiata.
Non si muove di lì. Io nemmeno.
'Giorno, rispondo. Ci provo, magari si accontenta, in mancanza del Presidente.
Che il Presidente sono io, lo capisco subito dopo. Quando vedo il sorriso pieno di gratitudine di Pelato e quando guardo meglio la stanza in cui sono.
È il Quirinale, non ci sono dubbi. Quindi non sono neanche un Presidente a caso.
Mi guardo in uno specchio. Sono io, stessa faccia, stesse Converse, stessa maglia con buco di tarma. Non posso fare il Presidente della Repubblica così.
Ma Pelato non sembra avere nessun problema a riguardo. Mi gira intorno, mi fa firmare fogli, mi chiede cosa deve dire e cosa deve fare.
E se non ha problemi lui, perché dovrei averne io. Solo che io non ho la più vaga idea di come si faccia il capo dello Stato.
Poi mi chiedo se lui veda me o un signore con rispettabili rughe e fazzoletto nel taschino.
Non lo saprò mai, mi tocca improvvisare, e provare almeno a contenere il danno. Per esempio, potrei provare ad adeguare il linguaggio. Un Presidente che comincia una seduta in Parlamento accendendosi una paglia e dicendo "che sbattimento", potrebbe far alzare più di un sopracciglio.
Per non parlare delle telefonate. Sicuro come la morte che mi chiama Mario Monti. E lì non me la cavo chiedendogli come va lo spread.
Che sbattimento, ragazzi.
Sento l'ansia che si arrampica su per la spina dorsale e mi appiccica la maglietta tarlata addosso. O forse la camicia di sartoria. Dipende dai punti di vista.
Ma poi guardo Pelato, la sua faccia carica di aspettative e velata apprensione. C'è la conferenza stampa, mi dice.
E io non posso deludere quest'uomo.
Va bene, andiamo. Ho giusto un paio di cose da dire a questo Paese.
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giovedì 22 marzo 2012
Scimmia, di Parco Cane.
Arriva.
Dentro, dietro le porte d'acciaio che si aprono, c'è una scimmietta.
E' magra come se avesse la scimmia.
Te l'immagini, una scimmia con la scimmia?
E' secca come un torsolo di mela, più che magra. E dello stesso colore di quel torsolo, ma dopo due ore di ossidazione al sole.
Insomma, non è che sia proprio una bella scimmia. Del resto, quando mai lo è, bestia d'una bestia?
Ha un proprietario, ma quell'essere inutile non si palesa. Forse ha la scimmia pure lui, ma non quella che vedo io, un'altra.
Cioè, io non lo vedo, ma forse è solo uno che manco si vede anche se lo si guarda.
La scimmietta, che chiameremo Ginetta, mi sorride vampira.
E ce l'ha con me.
Ginetta mi tende la manina della zampina, ma tutti questi diminutivi e vezzeggiativi mi hanno rotto e la manina se la tenga pure, io la mia non gliela do.
Quella se ne frega del mio rifiuto e cerca di saltarmi in braccio, anzi, di baciarmi sul collo.
Mi ritraggo sudato. le porte dell'ascensore si chiudono e scappo come un leprotto inseguito -guarda caso- da una scimmia succhiasangue.
Corro, mi volto, corro, mi volto, corro, mi volto e mi vedo inseguito da mia cugina truccata come un ultrans, in altre parole: una specie di ragioniere brasiliano con le tette all'altezza delle spalle, che fa il tifo durante una partita di calcio al Maracanà.
Ha un'enorme banana gonfiabile in mano e una bandiera di una squadra carioca per vestito.
Santodio, vorrei chiedere aiuto, ma le parole non escono, solo fiato spento.
Purtroppo, corro voltato e vado a sbattere contro un palo della luce spenta.
Spento il fiato, spenta la luce, è accesa solo la sveglia.
Già, la capocciata l'ho presa per davvero, contro la trave della mansarda dove sta la mia stanza da letto, reagendo alla sveglia.
Che, senza cuore, ma con le batterie in ordine, mi richiama al mio, di ordine.
La spengo con un rutto (è una sveglia sensibile alla voce, oggi le fanno così). E torno a sognare. La prossima volta vi dico cosa.
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La pelle esaurita.
Ora, il principio che differenzia il dormire dal morire è il fatto che, se dormi, poi ti svegli. E sei uguale a prima. Se muori non si sa. Però se dormi ti svegli e sei uguale, ecco.
E invece io mi sveglio e non è proprio tutto uguale. Anzi.
Sono tutta coperta da tatuaggi.
Il che non sarebbe un problema se, uno, non ci fosse mia madre guardarmi mentre mi rendo conto di tutto questo e soprattutto, ovvero due, i tatuaggi non fossero orribili.
Ho un cuore gigantesco che mi copre la schiena.
Le braccia coperte di tatuaggi che si sovrappongono l'uno all'altro, come in una frenesia d'inchiostro.
E più mi guardo più ne spuntano.
Tò, un geranio sul collo.
Tò, un bracciale sul braccio.
Una corona sul bicipite.
Un diamante sul polso.
Più mi guardo e più ne ho.
Il tatuatore dice che sono delle prove, scompariranno a breve.
Ma qui questo scempio si autorigenera, in un crescente orrore di colori fluo e vaselina lucida.
Non scompaiono neanche se mi vesto.
Mi sono svegliata, si.
Ma forse preferirei essere morta.
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E invece io mi sveglio e non è proprio tutto uguale. Anzi.
Sono tutta coperta da tatuaggi.
Il che non sarebbe un problema se, uno, non ci fosse mia madre guardarmi mentre mi rendo conto di tutto questo e soprattutto, ovvero due, i tatuaggi non fossero orribili.
Ho un cuore gigantesco che mi copre la schiena.
Le braccia coperte di tatuaggi che si sovrappongono l'uno all'altro, come in una frenesia d'inchiostro.
E più mi guardo più ne spuntano.
Tò, un geranio sul collo.
Tò, un bracciale sul braccio.
Una corona sul bicipite.
Un diamante sul polso.
Più mi guardo e più ne ho.
Il tatuatore dice che sono delle prove, scompariranno a breve.
Ma qui questo scempio si autorigenera, in un crescente orrore di colori fluo e vaselina lucida.
Non scompaiono neanche se mi vesto.
Mi sono svegliata, si.
Ma forse preferirei essere morta.
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mercoledì 29 febbraio 2012
Il falò delle personalità.
Prima di tutto, mi chiedo, come mai casa dei miei al mare sia una delle ambientazioni preferite dal mio subconscio. Comunque, casa dei miei al mare.
Non sono sola, ma non so dire con chi. So dire che è notte, che le piante in giardino respirano lente e l'amaca dondola piano se stessa.
Poi, dai confini del prato spuntano loro. Alti, magri, neri e decorati dalla testa ai piedi. Trattasi di guerrieri masai. Spuntano dal cespuglio di lavanda come se emergessero dal bush nubiano. Si muovono leggeri come gazzelle. Si acquattano tra il lampione e la pianta di basilico. Poi cominciano ad appiccare piccoli falò in giro per il giardino, come in uno strano rito propiziatorio. Non sono minacciosi. Ma il mio istinto onirico è particolarmente sveglio stanotte e capisco subito il loro obiettivo. Sono venuti per dare fuoco alla casa. Per cui l'unica cosa da fare è scappare. Due parole dette con gli altri e la decisione è presa. Prendiamo le nostre cose e andiamo via. Ma nessuno sembra avere troppa fretta. Mi vedo entrare nella mia stanza, accendere la luce e cominciare a scegliere la mia roba dall'armadio come se avessi tutta la notte. Questo sì, questo no. Questo com'è che non l'ho ancora buttato via? Poi sento un lamento, dietro di me. Nel mio letto c'è una bambina di circa 8 anni, che si stropiccia gli occhi e mugola senza parole. Devo averla svegliata e la cosa non le è piaciuta. Si vede che non ci so fare con queste cose. Ho acceso la luce e fatto confusione senza pensare che il sonno dei bambini è una cosa sacra. Le dico "Dormi, va tutto bene, se vuoi ti canto una ninna nanna". Peccato che la casa stia andando a fuoco. Ed è qui che io decido di intervenire. E per "io" intendo proprio io, quella che sta sognando, stesa nel suo letto. Sento la mia voce fuori campo che parla con l'altra snaturata me, in campo. Mi urlo che il punto è salvare la bambina, non preoccuparsi del suo sonno. Ma più insisto, più non mi do retta e mi prodigo in ninna nanne che terrebbero svegli anche i morti. E in questo teatrino delle personalità multiple, l'idea di un'innocenza messa al rogo si insinua subdola e mi disturba il sonno. E adesso dormi, va tutto bene, se vuoi ti canto una ninna nanna.
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Eurozona, di Parco Cane.
Un gigantesco prosciutto incombe su di me, pata negra, prosciutto spagnolo.
Penzola come appeso a un chiodo, sembra lì a stagionare.
Ma mi trovo all'aperto, sopra di me il cielo sbuca da tutti i punti di vista. E' impossibile che ci sia un prosciutto appeso.
Comunque, ho fame, ne voglio un pezzo, cerco di prendere il coltello svizzero che ho in tasca, ma le mani reggono due boccali di birra, a testa (cioè, a mano, ma a testa per mano).
Si tratta di due boccali da litro bavaresi, riportano il disegno di un tale con cappelletto piumato, calzoni corti alla zuava, bretelle e calzini, corti e pure loro alla zuava.
Roba da sogno, mai visti calzini alla zuava.
Faccio per bere, ma nei bicchieri c'è solo schiuma.
Decido di appoggiarli in terra, così almeno posso tagliare il jamon.
Guardo in basso. C'è il cielo pure lì.
Probabilmente sono morto. All'oktoberfest.
L'avevo detto che non ci volevo andare. Ma non so a chi l'ho detto.
Si avvicina una. Sembra un'olandesina.
Trecce, guance rosse e paffutelle, camiciola bianca, gonnellino rosso.
A parte il fatto che ci sono troppe nazionalità in questo sogno, decido che me ne frego del prosciutto spagnolo, del coltello svizzero, della birra bavarese e mi butto sui paesi bassi.
A questo punto, mi sveglio. Ma per davvero.
E mi ritrovo a letto, da solo.
A Lodi.
Fanculo.
Dreamed by: Parco Cane
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sogni di altri
mercoledì 25 gennaio 2012
Il caschetto improvvisato.
Quindi vado dal parrucchiere, perché la chioma è diventata veramente ingestibile. Se provo a tirare su i capelli, viene fuori una cresta da velociraptor.
Ma io non voglio essere un velociraptor, cazzo.
Mi rivolgo al mio parrucchiere di fiducia, il parrucchiere delle dive, quello che ha preso il mio crapino come un banco di sperimentazioni per i concorrenti di X-Factor.
Dalla circonvallazione di Milano si è spostato in uno stabile in stile Old Milano: una scala lunga e ripida mi porta direttamente al suo appartamento, un open space convertito a studio bipiano, arredato con un gusto Art Nouveau: tappeti sgargianti, tende di broccato, tavolini rococò.
Bypasso questa frociaggine e mi siedo sulla poltrona mentre addetti ai capelli mi svolazzano intorno come in un musical. Un paio di sforbiciate e sono pronta a sfoggiare il mio nuovo look.
Solo che appena scendo in strada mi rendo conto dello scempio che il pazzo ha fatto: invece di tagliarmi i capelli, il criminale li ha allungati in un caschetto platino very bon ton. Pazzo! Sono l'unica donna al mondo che paga per tagliare e questo allunga?
Tornata a casa medito sul da farsi e provo a dormirci su.
La mattina dopo, decisa, torno dal responsabile di questa scelta inconsulta che mi fa assomigliare più a mia madre che a me stessa: ma l'appartamento è vuoto, nessun parrucchiere, nessun musical.
Devo tenermi questo caschetto e andare in giro come la Caterina Caselli 2.0.
Ma io voglio essere un velociraptor, cazzo.
Dreamed by: Co.
Ma io non voglio essere un velociraptor, cazzo.
Mi rivolgo al mio parrucchiere di fiducia, il parrucchiere delle dive, quello che ha preso il mio crapino come un banco di sperimentazioni per i concorrenti di X-Factor.
Dalla circonvallazione di Milano si è spostato in uno stabile in stile Old Milano: una scala lunga e ripida mi porta direttamente al suo appartamento, un open space convertito a studio bipiano, arredato con un gusto Art Nouveau: tappeti sgargianti, tende di broccato, tavolini rococò.
Bypasso questa frociaggine e mi siedo sulla poltrona mentre addetti ai capelli mi svolazzano intorno come in un musical. Un paio di sforbiciate e sono pronta a sfoggiare il mio nuovo look.
Solo che appena scendo in strada mi rendo conto dello scempio che il pazzo ha fatto: invece di tagliarmi i capelli, il criminale li ha allungati in un caschetto platino very bon ton. Pazzo! Sono l'unica donna al mondo che paga per tagliare e questo allunga?
Tornata a casa medito sul da farsi e provo a dormirci su.
La mattina dopo, decisa, torno dal responsabile di questa scelta inconsulta che mi fa assomigliare più a mia madre che a me stessa: ma l'appartamento è vuoto, nessun parrucchiere, nessun musical.
Devo tenermi questo caschetto e andare in giro come la Caterina Caselli 2.0.
Ma io voglio essere un velociraptor, cazzo.
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mercoledì 18 gennaio 2012
Lontano da dove.
Sto traslocando. Di nuovo. Anzi, a giudicare dal mio stato psico-fisico ho appena finito di traslocare. Mi sento addosso il peso di tutte le scatole che ho trasportato, di tutta una vita impacchettata alla rinfusa, ancora una volta, e poi incastrata con finta razionalità tra scaffali e cassetti nuovi.
Dicono che il trasloco sia nella lista delle esperienze più traumatiche della vita, però la soddisfazione che si prova quando anche l'ultimo calzino è stato scaraventato a caso sotto il letto ti ripaga di ogni vertebra dolorante e di ogni imprecazione sibilata a denti stretti.
Beh, eccomi. Questo è il momento in cui mi guardo intorno e immagino il futuro nella nuova tana, sotto forma di trailer da commedia americana, con tanto di colonna sonora e scene a rallenty. Però, ovviamente, c'è qualcosa che non va. Più mi guardo intorno più mi accorgo di dettagli inquietanti, di un disturbo di fondo che vive al di là del disordine e degli scatoloni ancora affastellati in giro. Macchie umide sui muri. Cavi elettrici a vista. Pezzi di intonaco sul pavimento. E il pavimento che non è affatto un pavimento, ma un pietrisco irregolare e polveroso, di quelli che ti fanno diventare bianche le scarpe quando ci cammini su. Nella mia testa scatta il piano d'emergenza: mi dico che se sono qui avrò sicuramente valutato i pro e i contro e avrò deciso che ne valeva la pena. Al momento la parte dei pro mi sfugge ma ora ci penso un secondo e vedrai che mi viene in mente. E mentre ci penso lo vedo. Il cielo, limpido e pulito sopra la mia testa. I sogni di solito permettono di godersi certe cose senza farsi troppe domande, ma stavolta la poesia passa quasi subito. Il fatto è che c'è un buco enorme nel soffitto. E contro questo cielo che mi piomba in casa, cominciano a comparire le braccia metalliche di alcune ruspe, prese a smontare qualcosa poco lontano da qui.
In fine, ecco arrivare il ricordo della casa che ho lasciato per venire qui, una mansardina piccola e scomoda, che a periodi ho odiato e amato ma che in confronto a dove sono ora è un sogno che si sbriciola nella polvere del mio nuovo pavimento.
Ecco, io e la mia mania di prendere e smantellare la mia esistenza per ricostruirla ovunque, purché sia lontano. Lontano da dove, poi, non l'ho ancora capito.
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mercoledì 11 gennaio 2012
L'aereo che non c'era, di X-senefrega.
Su questo aereo le file per i passeggeri non sono 6, ma appena la metà. 2 a destra e solo 1 a sinistra. Il velivolo è equipaggiato in maniera essenziale, nessuna rifinitura, siamo a contatto con la lamiera del telaio. Insospettito mi dirigo in cabina di pilotaggio. Non c'è neanche questa. Il pilota siede in un angolo su una sedia di ferro da arena estiva, come un qualsiasi autista di autobus. E a guardare bene non c'è neanche il copilota. E se si dovesse sentire male? Come leggendomi nel pensiero il pilota cerca di rassicurami indicandomi l'ala sinistra, facendomi notare che è nuova. È stata appena cambiata ed è verde bottiglia. Ondeggia al vento come carta velina e ha la consistenza dei giocattoli in plastica Made in China di pessima fattura. L'aereo si avvia su una pista che curva a gomito dietro un palazzone di cemento grezzo prospiciente su un mare nero. Se l'avessimo presa più velocemente saremmo sprofondati a testa in giù. Ma in realtà non decolleremo su questo velivolo. Ce n'è un altro che ci aspetta a bordo pista, in bilico come a bordo vasca. Voleremo con un golf caddy alato. La stiva non è altro che uno zainetto di plastica trasparente già mezzo pieno. E pensare che l'ultima volta mi ero lamentato perché il nostro canadair di linea atterrava in un sottopassaggio in mezzo all'oceano.
Dreamed by: X-senefrega.
Il suo blog: E chi se ne frega
Dreamed by: X-senefrega.
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martedì 10 gennaio 2012
Il padre onnipresente.
Cammino per le strade di Londra con le mie flipflops ai piedi e un paio di vecchi bermuda sdruciti.
Sembro la figlia dell'asciugamano: così sciatta e poco curata non lo sono mai stata. Eppure sono felice e radiosa, e ogni passo è sul cammino della scoperta del mondo, anziché sui marciapiedi.
All'improvviso mi si para davanti un ragazzo con cui ho avuto una storia anni fa. E' bello come il giorno che l'ho visto e il suo accento di Nottingham mi seduce come quella sera. Con un sorriso mi invita a bere una birra in un locale che conosce, lì vicino: saltiamo un muretto e ci troviamo seduti all'interno di un tipico pub inglese, con una bella pinta a testa.
Ci scoliamo il boccale in un fiato mentre ci raccontiamo i principali avvenimenti degli ultimi anni e all'improvviso, senza preavviso e premeditazione, nel modo più naturale che ci sia, il biondo albionico si avvicina e mi bacia con una lentezza da togliere il fiato. Restiamo così, incollati per il respiro, finché qualcosa non mi colpisce sulla spalla.
Apro gli occhi. Mi giro. Mio padre è rimasto seduto dietro di noi a guardarci limonare per tutto questo tempo. Che dire? Nulla, comincia lui.
"Ma ti rendi conto che il locale è chiuso?"
E' vero: mi guardo intorno e le serrande sono abbassate. Il personale mangia scodelle di sausage and mash seduto per terra. Avessero i popcorn, non dubiterei che anche loro si sono goduti lo spettacolo.
"Ma pensa te, cosa mi tocca vedere...."
Eh papà, magari la prossima volta non te ne resti lì impalato come un baccalà.
"Dai che fai tardi. Se non sei fuori in un secondo ti lascio qui."
Ah si, dove dobbiamo andare? Fretta batte curiosità uno a zero: mi fiondo fuori come una scheggia, omettendo di chiedere al Chris Martin dei poveri come la mettiamo con sta storia che abbiamo limonato e lui, se non erro, ha una fidanzata.
Corro come una matta ma non arrivo in tempo: papà mi ha mollato da sola sul marciapiede. Non mi resta che tornare a casa, nel mio quartiere popolare, in quella topaia al settimo piano dove vivo e dove, a sorpresa, crede di vivere anche una signora di 80 anni completamente pazza, dalla chioma argentea cotonata, che usa il mio apparecchio telefonico per dire a tutti che si chiama Lily.
Rubo l'apparecchio e telefono a mio padre. Risponde mia madre. Mento spudoratamente:
"Mamma, non è che sono arrivata in ritardo, è che ho trovato una pazza in casa e non riesco a sbarazzarmene."
"Non ti preoccupare amore. Chiama l'istituto di igiene mentale, te la portano via loro. Ci vediamo dopo."
Mi spiace Lily. Di pazzi, stanotte, ne ho visti abbastanza.
Ti va un birra mentre aspettiamo?
Dreamed by: Co.
Sembro la figlia dell'asciugamano: così sciatta e poco curata non lo sono mai stata. Eppure sono felice e radiosa, e ogni passo è sul cammino della scoperta del mondo, anziché sui marciapiedi.
All'improvviso mi si para davanti un ragazzo con cui ho avuto una storia anni fa. E' bello come il giorno che l'ho visto e il suo accento di Nottingham mi seduce come quella sera. Con un sorriso mi invita a bere una birra in un locale che conosce, lì vicino: saltiamo un muretto e ci troviamo seduti all'interno di un tipico pub inglese, con una bella pinta a testa.
Ci scoliamo il boccale in un fiato mentre ci raccontiamo i principali avvenimenti degli ultimi anni e all'improvviso, senza preavviso e premeditazione, nel modo più naturale che ci sia, il biondo albionico si avvicina e mi bacia con una lentezza da togliere il fiato. Restiamo così, incollati per il respiro, finché qualcosa non mi colpisce sulla spalla.
Apro gli occhi. Mi giro. Mio padre è rimasto seduto dietro di noi a guardarci limonare per tutto questo tempo. Che dire? Nulla, comincia lui.
"Ma ti rendi conto che il locale è chiuso?"
E' vero: mi guardo intorno e le serrande sono abbassate. Il personale mangia scodelle di sausage and mash seduto per terra. Avessero i popcorn, non dubiterei che anche loro si sono goduti lo spettacolo.
"Ma pensa te, cosa mi tocca vedere...."
Eh papà, magari la prossima volta non te ne resti lì impalato come un baccalà.
"Dai che fai tardi. Se non sei fuori in un secondo ti lascio qui."
Ah si, dove dobbiamo andare? Fretta batte curiosità uno a zero: mi fiondo fuori come una scheggia, omettendo di chiedere al Chris Martin dei poveri come la mettiamo con sta storia che abbiamo limonato e lui, se non erro, ha una fidanzata.
Corro come una matta ma non arrivo in tempo: papà mi ha mollato da sola sul marciapiede. Non mi resta che tornare a casa, nel mio quartiere popolare, in quella topaia al settimo piano dove vivo e dove, a sorpresa, crede di vivere anche una signora di 80 anni completamente pazza, dalla chioma argentea cotonata, che usa il mio apparecchio telefonico per dire a tutti che si chiama Lily.
Rubo l'apparecchio e telefono a mio padre. Risponde mia madre. Mento spudoratamente:
"Mamma, non è che sono arrivata in ritardo, è che ho trovato una pazza in casa e non riesco a sbarazzarmene."
"Non ti preoccupare amore. Chiama l'istituto di igiene mentale, te la portano via loro. Ci vediamo dopo."
Mi spiace Lily. Di pazzi, stanotte, ne ho visti abbastanza.
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lunedì 9 gennaio 2012
La metamorfosi incontrollata.
Mi alzo dal letto con un balzo. Un dolore totalizzante alle dita dei piedi mi ha tormentato tutta la notte. In un bagno di sudore salto in piedi e guardo giù: Cristo, i miei piedi non hanno più le unghie. Cazzo.
Corro in bagno per cercare qualcosa, qualsiasi cosa, come se un'Aspirina o un Oki o una spruzzata di Cif potessero cambiare le cose, e mi accorgo della mia immagine nello specchio: ho i capelli lunghi, lunghissimi, color biondo platino. Per una mora dalla nascita e coi capelli corti per scelta è uno smacco furioso.
Prendo le forbici e comincio a tagliare forsennatamente ma niente, le chiome continuano a crescere più forti e più veloci che mai.
I piedi non mi importano più, ora guardo le mie mani, la pelle è tesa e uniforme come non lo è mai stata, come quella di una bambola. Sono una bambola. Cerco il telefono disperatamente e chiunque ci sia all'altro capo sente un urlo disperato: Aiuto! Mi sto trasformando geneticamente in una Barbie!
Quello che per una teenager americana media e una Milanese comune di qualsiasi età è uno sogno proibito è appena diventato un incubo realistico e senza senso.
E dall'altra parte del filo non arriva nessuna consolazione, solo una consapevolezza bastarda:
Se non puoi controllare la trasformazione, lasciala andare.
Pazienza per i capelli, ma le unghie dei piedi un po' mi mancheranno.
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Corro in bagno per cercare qualcosa, qualsiasi cosa, come se un'Aspirina o un Oki o una spruzzata di Cif potessero cambiare le cose, e mi accorgo della mia immagine nello specchio: ho i capelli lunghi, lunghissimi, color biondo platino. Per una mora dalla nascita e coi capelli corti per scelta è uno smacco furioso.
Prendo le forbici e comincio a tagliare forsennatamente ma niente, le chiome continuano a crescere più forti e più veloci che mai.
I piedi non mi importano più, ora guardo le mie mani, la pelle è tesa e uniforme come non lo è mai stata, come quella di una bambola. Sono una bambola. Cerco il telefono disperatamente e chiunque ci sia all'altro capo sente un urlo disperato: Aiuto! Mi sto trasformando geneticamente in una Barbie!
Quello che per una teenager americana media e una Milanese comune di qualsiasi età è uno sogno proibito è appena diventato un incubo realistico e senza senso.
E dall'altra parte del filo non arriva nessuna consolazione, solo una consapevolezza bastarda:
Se non puoi controllare la trasformazione, lasciala andare.
Pazienza per i capelli, ma le unghie dei piedi un po' mi mancheranno.
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- Io sono Monsters, lei è Co. E questi sono i mostri che teniamo nascosti di giorno e che portiamo a spasso di notte. Presentateci i vostri, ci piaceranno: scriveteci all'indirizzo monstersendco@gmail.com (si scrive come si legge).
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