giovedì 20 ottobre 2011

Il morso.

Molta polvere e poca luce. Almeno qui dentro. Ma se mi volto indietro, vedo il rettangolo di una porta spalancata inondato di una luce accecante, di lame bianche che entrano con violenza e tagliano l'aria viziata. È tutto fermo, anche il respiro. Viene fuori incerto, si sente un ospite indesiderato. Dev'essere passato molto tempo dall'ultima volta che qualcuno ha camminato in questa casa. Devo muovermi piano, senza disturbare, ma il silenzio è così forte che mi cigolano anche i pensieri. Piano, pensa piano. E così osservo molto piano la scalinata davanti a me e poi molto piano giro la testa da un lato. Non sono sola. A qualche metro da me c'è un cane tutto costole e denti, mi fissa muto con i suoi occhietti umidi e il naso tremolante. To starve è il termine inglese per “morire di fame”. Come sono pragmatici gli inglesi, racchiudono immagini potenti in una sola parola, anche quando si parla di cose come la morte. Cose per cui noi sprecheremmo lacrime e preghiere e veli di pizzo nero e litanie recitate in un filo di voce. To starve è quello che sta succedendo a te, cane. Da quanti secoli nessuno ti allunga qualcosa da mangiare? Mi sembra anche di conoscerti, in qualche modo mi ricordi qualcosa, forse addirittura qualcuno, ma tutto questo pensare fa troppo rumore. Scusami cane, devo fare silenzio. Passa un secondo, anzi meno, nessun rumore, nessun movimento, eppure mi accorgo che il cane è qui, proprio dove sono io e mi sta mordendo la mano sinistra. Il dolore arriva in ritardo e non è nemmeno dolore, è più un certo fastidio, ho una mano bloccata nella bocca di un cane che forse conosco e forse no e forse mi ricorda qualcuno e questa cosa mi dà fastidio, ecco. Devo liberarmene. Comincio a salire le scale davanti a me con il cane che non molla, la mano sanguina, la sollevo e lui mi resta attaccato a penzoloni, con le zampe che annaspano nell'aria polverosa. Ti avrei comprato una salsiccia e invece non avrai proprio niente e stai anche facendo un baccano infernale. Tutto questo sangue mi rovinerà i vestiti e l'umore. Arrivo in cima alle scale e il cane è sparito. Così non vale. Trovo un bagno e cerco di lavarmi le mani ma resto ferma a guardare la mia immagine nello specchio. Perché non c'è un posto nel mondo dove possa restare un secondo in pace? Poi premo la mano aperta contro il vetro e lascio un'impronta netta di sangue. Mi piace l'idea di spaventare qualcuno, se mai qulcuno dovesse arrivare. 


Dreamed by: Monsters

giovedì 6 ottobre 2011

Il Temporale, di Master of Monsters.


Galassie color porpora si srotolano davanti ai miei occhi mentre seguo un corridoio di stelle che mi conduce a una porta di alabastro. Mi guardo alle spalle e vedo intere civiltà sgretolarsi in un istante, spazzate via da un vento distruttivo che non risparmia niente: grattacieli, case, uomini, piante e animali. Non posso fare nulla. Apro la porta ed entro nella stanza. Una piccola scala di pietra grigia mi accompagna fino a una grande terrazza che si affaccia su una lunga spiaggia di sabbia bianca. La spiaggia è deserta e l’unica entità vivente capace di modificare la sua perfetta geometria è un mare blu, che inspira ed espira senza sosta producendo un forte moto ondoso. Anche la terrazza è vuota se non fosse per alcune tende bianche che vengono strattonate di tanto in tanto da folate di vento improvvise. 
Mi guardo un po’ intorno ma intorno non c’è proprio niente. Mi siedo in un angolo e aspetto. Qualcosa dovrà pur succedere. Anche se fosse un sogno, come presumo che sia, qualcosa prima o poi verrà a sconvolgere questa apparente staticità. E invece niente, i minuti (o le ore) passano ma tutto sembra ripetersi con cadenza perfetta. L’onda che si infrange sulla spiaggia, la risacca, un colpo di vento che fa vorticare le tende e poi un attimo di quiete, prima che si ripeta di nuovo la stessa precisa sequenza di eventi. 
Provo a distendermi sul pavimento e chiudere gli occhi. Magari se riesco ad addormentarmi posso produrre l’effetto contrario, una specie di sogno scaccia-sogno che potrebbe farmi risvegliare nel mio letto. Potrei aprire gli occhi di colpo e ritrovarmi sudato con la testa dalla parte opposta del cuscino e le lenzuola appallottolate in un angolo, come quando non digerisci bene e cadi in un sonno pesante e turbolento. Invece, quando riapro gli occhi, sono ancora sulla terrazza con il mare che si schianta sulla sabbia. Solo una cosa è cambiata. Al centro della stanza è apparso un enorme letto circolare con le lenzuola bianche. Di un bianco abbagliante, quasi divino. 
Mi alzo e con passo lento mi dirigo verso il letto. Mi rendo conto però che l’andatura lenta non è voluta ma è dovuta a un ostacolo invisibile, come se alla caviglia mi avessero legato una di quelle pesanti palle da carcerato che mi impedisce il movimento. Ogni passo che faccio diventa sempre più difficile e arrivo a circa un metro dal letto quando, anche sforzandomi di utilizzare tutte le forze che il mio corpo sarebbe in grado di generare, non riesco più a muovermi. Sono completamente bloccato. I miei arti si sono letteralmente paralizzati. In realtà tutto il corpo è paralizzato.
La mente però è vigile, vede e sente tutto e cerca un modo per uscire da questa terribile impasse. E’ come se il mio sangue fosse stato improvvisamente avvelenato da una pesante dose di siero paralizzante. Come quello che alcuni serpenti dell’Africa sudorientale conservano per i loro nemi…
Non faccio a tempo a terminare questo pensiero che inizio a cadere. La pietra del terrazzo esplode sotto i miei piedi e si apre una voragine che mi inghiotte facendomi precipitare. Vedo le lenzuola bianche del letto e il blu del cielo diventare un punto sempre più lontano sopra di me. La velocità con cui precipito è pazzesca e in un attimo mi ritrovo completamente avvolto dall’oscurità. Urlo ma non sento la mia voce, avverto solo la velocità e la forza che l’attrito del mio corpo produce nel vuoto. 
Quando inizio a rallentare mi rendo conto che l’oscurità si sta gradualmente diradando e percepisco una presenza. Non la posso vedere ancora, ma sento la sua vicinanza, il suo calore, il suo respiro. La presenza si fa sempre più viva e ho paura a voltare lo sguardo. Ho paura di vedere quello che penso che vedrò. 
E infatti vicino a me adesso ci sei tu, coi tuoi lunghi capelli neri che ti tormentano il viso. Sei tu e mi guardi senza dire una parola, come al solito. Una specie di madonna muta, e quando tento di abbracciarti finisco solo per abbracciare me stesso. Il tuo fantasma precipita al mio fianco senza dire o fare niente, si limita a guardarmi fisso e io mi perdo nei labirinti della tua iride scura cercando di capire cosa vuoi dirmi, finché non mi ritrovo in un vicolo cieco. Uno di quelli da film poliziesco, con la rete metallica che devi scavalcare se vuoi fuggire dalla polizia che ti sta alle calcagna. E oltre la rete, un altro vicolo scuro con ai lati decine di bidoni della spazzatura, probabilmente abitati da gente in cerca di un rifugio per la notte. Scavalco la rete e corro senza mai guardarmi indietro, corro e basta, corro per raggiungere la luce in fondo al vicolo e quando la raggiungo sono già in mezzo a un deserto di rocce. Mi guardo i piedi e, senza sorprendermi troppo, noto che indosso degli stivali Camperos e alla vita porto un bel cinturone da cowboy con due pistole Colt che mi fanno ridere in maniera spropositata. La mia risata è talmente folle che persino gli avvoltoi che svolazzano sopra la mia testa sembrano sconvolti. 
Mi inginocchio in mezzo al nulla e rido e poi piango e poi prego perché tutto questo finisca. E alla fine della preghiera invece di concludere con “Amen” pronuncio il tuo nome e tu appari di nuovo davanti a me, questa volta più vera di prima. Mi prendi la mano e anche se non parli ora riesco a capire quello che vuoi dire. Leggo i tuoi pensieri. Capisco che c’è ancora tanta strada che devo fare e i chilometri di deserto sono centinaia e pieni di pericoli. Gli avvoltoi mi seguiranno e cadrò e mi rialzerò e cadrò ancora. Ma poi mi fai capire che le pistole che tengo nel cinturone sono quelle che tu mi hai donato tanti anni fa, quelle con il calcio di sandalo e il tamburo dorato. Nessun altro ha quelle pistole e con loro sarò sempre al sicuro perché possono uccidere un avvoltoio da una distanza di almeno 400 metri.  Io ti dico che non credo di essere un buon pistolero e che non sempre ho una buona mira. Tu sorridi e mi fai intendere che non devo preoccuparmi perché  anche se non avrò una buona mira il proiettile andrà a segno e colpirà quello che dovrà colpire, sarai tu a guidare la mia mano. Sempre tu. E allora prendi un proiettile e mi fai vedere, quasi a conferma di quello che sostieni, che sul rivestimento metallico ci sono incise le nostre iniziali e le nostre date di nascita ma non quelle di… Beh quelle li insomma. 
Mi baci e poi ti allontani. Lo fai con i tuoi movimenti sospesi ed eleganti, quelli che una vita fa mi hanno fatto innamorare di te, lo fai senza aggiungere nient’altro ma non hai di certo bisogno di altre trasmissioni di pensiero per dirmi che non ti posso seguire, perché nel posto in cui devi andare ci puoi stare solo tu per il momento. “Già” dico io ad alta voce “per il momento!”. 
Ma tu fai un sorriso evasivo, di quelli che uccidono più di qualsiasi pistola e di qualsiasi proiettile. Mi rialzo a fatica e ricomincio a camminare anche se le suole iniziano a sciogliersi sulla roccia rovente di questo deserto che non ha né un inizio né una fine, né passato, né futuro, solo un presente fatto di avvoltoi neri e pietra dura. 
Vedo in lontananza i lampi della tempesta che sta spazzando via le civiltà, quella tempesta devastante che ha dato inizio a questo insensato viaggio o sogno o non so nemmeno più io cosa sia. So solo che mi sento stanco e mi fanno male i piedi e ho un caldo infernale. Decido di fermarmi un attimo, accamparmi un po’ li, tra quelle rocce, almeno per questa notte, poi domani si vedrà. 
Il pensiero successivo lo faccio che sono tutto sudato, con la testa dalla parte opposta del cuscino e le lenzuola appallottolate in un angolo. Proprio come doveva essere, insomma, un sogno in piena regola, di quelli pesanti, indigesti e burrascosi. Intanto le tende sbattono violentemente contro l’anta della finestra che ho lasciato aperta. Mi alzo per chiuderla e guardo fuori. I lampi in lontananza illuminano il cielo che adesso ha il colore dello zolfo. 
Sembra proprio che stia arrivando un bel temporale.

Dreamed by: Master of Monsters.

martedì 4 ottobre 2011

La povera contadinella.

Sono una contadina.
Sono una povera contadina col suo carretto di cipolle e patate, in un villaggio medievale che sopravvive a stento.
Sono una povera contadina vestita di stracci e scarpe slacciate in una piazza piena di gente che ha fame.
Ma io non posso aiutarli, io no.

Oggi è un giorno speciale per me.
Oggi ho l'occasione di fare cambiare tutto.
Di non avere più fame.
Di non avere più freddo.
Di non avere più sonno.
Di non avere più paura.

Oggi il re verrà a fare visita al mio carretto.
E se gli piacerà quello che vedrà, mi prenderà a lavorare per lui. E non vedrà più l'orrore e la polvere della strada.
E il mio carretto lo sa, ed è diventato grande e magnifico. Le sue ossa di legno che ne sorreggono la struttura potente, così potente che ci si può mangiare sopra.

Ed è questo quello che farò, farò mangiare il re sul mio carretto, su divani fatti di stracci e cuscini fatti di piume. E cucinerò per lui cipolle alla brace e squisiti dolcetti di nocciole raccolte dagli alberi.
Ma qualcosa non va in questa magia, perché gli stracci restano stracci, e le cipolle restano cipolle. Il mio salotto fatato non prende vita, e tutto ha l'aspetto di un edificio distrutto dai colpi di un'invasione barbarica.
Il re sta arrivando.

E come accade ogni volta che si potrebbe salvare la situazione all'ultimo minuto,
con un piccolo miracolo degno dei migliori sogni,
con un deus ex machina che risolve tutto e lascia aperta la strada al lieto fine,
mentre vedo la mia occasione che mi corre incontro a falcate ampie, accompagnato da una schiera di vallassi e valvassori, con cappelli piumati e mantelli di broccato,
ecco che io,
proprio adesso,
proprio ora che non tutto è perduto,
proprio al sorgere del momento più importante di questa vita da povera,
ecco,
io
devo correre in bagno col mal di pancia.

Dreamed by: Co.

lunedì 3 ottobre 2011

La maturità.

Oh. E finalmente me la sogno sta maturità. E finalmente ci torno su quei banchi scrostati e sbiaditi dal tempo, come tutti i cristiani hanno fatto prima o poi.

E finalmente la busta che si apre, e il foglio che esce, che non vedi cosa c'è scritto dietro. E quei preziosi secondi che si dilatano prima che ti dicano il titolo del tema.

E tu e la rabbia, che la rabbia allora non c'era ma adesso si, a vagonate, e neanche tu sai perché ma ti senti la faccia rossa, con i pensieri che stanno per esploderle dietro.

E nella testa? Le materie non le so. Non me le ricordo più.
La matematica non la so. L'italiano non lo so. Le scienze non le so.
Il tema lo scrivo, si che lo scrivo, ma perché ho fantasia. Io.

Ma io lavoro, prof, non lo vede che lavoro? Che son grande e pago l'affitto e l'assicurazione dell'auto, che questi sbarbatelli qui neanche se l'immaginano cos'è che viene dopo. Cos'è che viene dopo, prof?
Perché mi guardano tutti, prof? Cos'ho fatto di male?
Che questo non è più il mio posto prof, io lo so, ma uno nuovo ancora non lo so se ce l'ho.
Vabbè prof, ho capito. Me ne vado.

Esco dall'aula e cristo, il titolo di quel tema non lo saprò mai.

Dreamed by: Co.