giovedì 21 luglio 2011

The show must go on.

Corro. Qualcuno, davanti a me, mi tiene saldo per mano guidandomi in una corsa a perdi fiato lungo un corridoio in penombra, straripante di oggetti e ostacoli di ogni tipo. Schivo una cassa di legno, salto oltre un accrocchio di cavi e prese elettriche, abbasso la testa per evitare un riflettore, inciampo sul tessuto spesso di una tenda. È chiaro, sono dietro le quinte di in un teatro, nei meandri di cunicoli che tra scale, scalette, angoli bui e macchinisti incazzati, conducono al palco. Quello che mi tiene per mano ha molta fretta, perchè non ci fermiamo mai, neanche per riprendere fiato. "Comincia lo spettacolo" mi dice, e io mi chiedo come mai non siamo seduti in una poltrona in platea, come tutto il normale pubblico pagante. In effetti, non ricordo di aver pagato un biglietto. Poi, finalmente ci fermiamo, in un piccolo spazio tra una quinta e l'altra su un lato del palco. Da qui, ho una visuale incredibile: vedo gli attori e le luci che aggrediscono impietose i loro volti e le minuscole crepe d'emozione sulle loro fronti,  nascoste dal cerone e da anni di metodo Stanislavskij. Sento il fruscio dei costumi e l'odore della lacca. Potrei quasi sedermi in un angolino e godermi lo spettacolo. Ma non ho neanche finito di formulare il pensiero, che il tizio che è con me mi mette in mano   un malloppo di fogli e mi dice "tocca a noi". Ecco. Sapevo che dietro c'era la fregatura. Guardo lui, il palco, i fogli, che naturalmente sono il copione. Che naturalmente io non conosco. Guardo me, in uno specchio,  sono in jeans e senza trucco mentre lì fuori c'è probabilmente la crema del panorama teatrale contemporaneo. Eppure, che io sappia, neanche il tizio ha studiato e neanche lui è in costume. Per cui sarò felice di dividere con lui questa scena tragicomica, se è quello che vuole. In un attimo siamo sul palco. Due alieni in converse, con la faccia di bronzo e la coda di paglia. Lui si inchina e io con lui e mi rendo conto, senza troppa sorpresa, che lui lo fa con una certa grazia mentre io ho la scioltezza di un impiegato giapponese. Adesso forse dovrò dire la mia battuta, quella che non so, e il panico comincia a salirmi in gola in bolle amare di saliva. Invece comincia il mio socio. Si siede su un pezzo di scenografia e parte con  un monologo che sembra non finire mai, incalzante, coinvolgente e incredibilmente ispirato. Quando finisce tutto il teatro è in piedi, in un delirio di commozione e applausi. È la prima volta che mi chiedo chi sia questo individuo. Eppure il pubblico lo ama. Gli attori lo amano. E forse, anche io.  

Dreamed by: Monsters

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